Visite del cardinal Siri al mondo del Lavoro
Ai miei cari Confratelli,
nel 1958, in occasione del diciassettesimo centenario del Martirio di San Cipriano avevo indirizzata al mio Clero una lettera dal singolare titolo «i complessi di inferiorità». Quella lettera voleva mettere in guardia contro un difetto purtroppo facile e che gli anni seguenti al 1958 hanno dimostrato assai diffuso. La lettera aveva una preoccupazione di fondo: concorrere a stabilire nettamente una linea di distinzione tra noi, uomini votati del tutto a Dio nel servizio dei fratelli e il gran mondo La linea di distinzione c’é perché l’ha inculcata Nostro Signore Gesù Cristo nel più grande dei suoi discorsi «Voi siete nel mondo, non siete del mondo» (Giov. 17) e pertanto non può essere oggetto di dubbio o di discussione. La questione sta nel fatto che le distinzioni o sono fatte con una linea matematica, la quale non ha estensione e dove solo la più assoluta precisione permette di non mescolare quello che non va mescolato, o ammettono, tra le due parti, una zona grigia, la quale può venire invasa e da una parte e dall’altra e dove pertanto possono sorgere con facilità e danno estremi le confusioni.
Ritengo mio dovere fare il possibile per illuminare ai miei cari Confratelli nel sacerdozio questa fondamentale distinzione tra noi e il mondo, perché è solo col rispetto di questa distinzione che saranno sacerdoti puri, onesti, coerenti, rispettabili, efficaci.
Oggi riprendo il discorso del 1958 per rispondere con un argomento diverso alla stessa esigenza di fondo: distinzione dal mondo.
E l’argomento è la debolezza della mimetizzazione, rispetto al mondo.
Parte Prima: LA MIMETIZZAZIONE
1. Che cosa è
Mimetizzarsi è rendersi uguali, od almeno simili, all’ambiente nel quale si sta.
Vi sono molti animali che hanno questa dote e per essa possono persino cambiare colore in modo che riesce difficile distinguerli dalla flora o dal terreno in mezzo ai quali stanno Così si difendono, perché l’eventuale aggressore più facilmente è tratto in inganno sulla loro presenza. In guerra la mimetizzazione viene largamente usata per far fallire il bersaglio del nemico e per nascondergli la propria presenza. Si tratta di due casi, nei quali la mimetizzazione non è affatto una debolezza; è invece, negli animali uno strumento, negli uomini una onesta astuzia per la propria difesa.
Qui non si parla di tale mimetizzazione materiale. Ci si occupa della mimetizzazione morale che consiste nel prendere atteggiamenti di pensiero, di contegno, di simpatia, di consenso, di imitazione propri dell’ambiente generale o di un determinato ambiente allo scopo di ottenere determinati effetti.
La spia, l’evasore, l’ambizioso, il ricattatore, il congiurato, il traditore si mimetizzano in tal senso quanto possono per carpire, per sfuggire, per riuscire a buon mercato
Non intendendo occuparmi di spie, etc.: coloro ai quali è destinato questo scritto non appartengono a tali categorie.
I tipi di mimetizzazione sono tanti quanti gli ambienti ai quali ci si vuole assimilare esternamente. Perché la mimetizzazione è un fatto essenzialmente esterno. Vorrei che si notasse accuratamente questo, perché è della massima importanza in tutto il nostro presente studio.
Non è mia intenzione perdere tempo per parlare della mimetizzazione specifica rispetto a questo o a quell’ambiente: parlo della mimetizzazione generica a TUTTO l’ambiente mondano che ci circonda.
2. Per quale scopo ci si mimetizza
La mimetizzazione, che è sempre un fatto istintivo negli animali, è invece negli uomini un fatto voluto, anche se non si possono escludere piccoli margini in cui opera la suggestione o la imitazione. Ed è un fatto voluto perché ha uno scopo. Vediamo gli scopi più comuni per i quali ci si mimetizza. Gli scopi principali per cui moralmente ci si mimetizza sono tre: la paura, la difesa, la conquista. Si tratta di tre scopi che possono rifrangersi in molti modi. Vediamo di discorrerne partitamente.
La PAURA. Essa fino ad un certo limite fa parte della natura umana, per il solo fatto che la natura umana è sotto taluni aspetti MENO FORTE della natura inanimata od anche solo perché è in determinati individui meno forte di altri individui della stessa specie. E’ comprensibile sempre e, spesso, è irreprensibile. Infatti le carature diverse, i pericoli incombenti, l’istinto di conservazione giustificano il timore, il senso di fuga dei quali è costituita la «paura». Non si può imputare in via generale e fino ad un certo punto, quasi fosse colpa, l’avere naturalmente paura. Tanto più che spessissimo la paura è solo una forma di patologia nervosa.
La questione morale, quella per cui si pone il dovere di reagire alla paura, distruggendone il dettame sorge ad un certo punto. Sorge quando la intelligenza avverte che non è giustificata od è esagerata o non consentanea alla personale dignità, oppure quando avverte che la stessa paura spinge a compiere il male o a fuggire un dovere pur sempre incombente, ad onta della paura. Ricordo la paura che incutevano i bombardamenti aerei; non si trattava davvero di paura colpevole. Ma quando si fosse trattato di un sacerdote obbligato o per giustizia o per carità a soccorrere i morenti, la paura che avesse immobilizzato, in quanto stornava da un sacrosanto dovere, era obiettivamente parlando certa fonte di colpa. Nessuno è obbligato, salvo il caso di carità, di giustizia, di ufficio o di bene comune a notificare le malefatte del prossimo; ma quando la giustizia stretta o il dovere certo obbligassero a parlare e la paura facesse tacere, quella paura diventerebbe colpevole e forse ignominiosa e traditrice. La paura anche quando è scusata in certi limiti dalla umana condizione non è una colpa, ma non è neppure un vanto: è solo una espressione piuttosto umiliante di limiti e di debolezze. Sicché, anche se fino ad un certo punto non è un male, non è mai un onore. La educazione che si dà ai ragazzi, deve tendere tra l’altro a diminuire in loro il margine della naturale paura, attrezzandoli invece alle manifestazioni di coraggio. La paura per cui ci si mimetizza potrà talvolta ed in talune circostanze essere ammessa, ma non sarà mai il motivo per una medaglia al valore. Va considerata come una ipoteca che il coraggio deve decurtare. In molti casi è solo una penosa tentazione da vincere.
La DIFESA può essere spesso mossa o richiesta dalla paura, ma non sempre. Infatti essa è solo un atto contrario ad un altro atto che può venir considerato aggressivo. La difesa purché giusta è lecita. Ma la difesa di fronte al pericolo diventa ingiusta se si spinge — posto che non si tratti di sciocca paura — fino a contenere un coraggio doveroso, una azione di rischio necessaria. Se si dovesse parlare altrimenti della difesa, non sarebbero mai esistiti uomini che hanno tenuto con sacrificio il loro posto, apologisti che hanno sfidato l’errore, intrepidi che si sono opposti ai cattivi eventi, martiri che hanno versato il sangue.
Non c’è dunque alcun dubbio che l’istinto della difesa, oltre un certo limite non autorizza moralmente a mimetizzarsi.
Tanto meno autorizza quando il pericolo in effetti non c’è o non è dal punto di vista del danno, valutabile.
Si tenga presente che «mimetizzarsi» è atto positivo, non è atto meramente negativo, come tacere e non essere presente. Neppure il tacere e l’assenza diventano leciti quando esiste un positivo dovere di parlare e di mostrarsi. Come di fatto molte volte esiste. I pericoli talvolta debbono essere fuggiti, talvolta possono essere fuggiti, talvolta debbono essere affrontati.
La CONQUISTA è in materia il fatto più complesso. Ha molte specie e sottospecie.
Ci si può mimetizzare per pigrizia: in realtà l’«esser diverso» può esporre fastidiosamente agli sguardi altrui, ai commenti malevoli, alle reazioni. Subire tutto questo diventa «fatica» ed allora ci si allinea colla massa, per non avere quei disturbi. La pigrizia è un difetto e tutto quello che si fa per pigrizia, ordinariamente, non diventa virtù. E’ solo la ignobile conquista della altrui benevolenza, se non — meno nobilmente — della altrui tolleranza. Si tratta dell’angolo d’ombra in cui si rifugiano tutti i deboli.
Il conformismo, descritto in quanto s’è detto fin qui, è una vile captatio benevolentiae ed è la forma meno onorevole di risolvere i problemi posti dalla umana convivenza, tanto più che non ha assolutamente alcuna lontana parentela colla obbedienza, col rispetto, colla moderazione e colla pazienza. Esso — il che è caratteristico del mimetizzarsi — cancella la personalità propria per simulare quella altrui.
Ci si mimetizza per ingannare e l’inganno è strumento di una conquista, ottenuta ad indegno prezzo.
Ci si mimetizza per euforia, per tifo, per ammirazione, per concorrenza, per stupidità od almeno per errati giudizi sul valore altrui. In tal caso l’obiettivo è la compartecipazione di quanto s’esalta o si ammira, la conquista di un posto al sole, un mettersi sottovento. Spesso è solo vacua imitazione. Non sempre tutto questo comincia da una colpa, ma ben difficilmente potrà salvarsi tra le cose degne e nobili. Ricordo quand’ero bambino un mio compagno che si piccava di imitare quanto poteva una smorfia caratteristica di un personaggio illustre. Non c’era nulla di male in fondo, ma noi si rideva ed anche chi aveva quel vezzo, capì e se lo levò.
Ci si mimetizza per acquistare popolarità. Bisogna dire che la popolarità costituisce uno dei difetti più diffusi e delle debolezze più evidenti del nostro tempo. Il mio scopo non è quello di fare dello spirito, anche se qui lo potrei fare, a spese però altrui.
La popolarità in se stessa è una buona cosa, ma la sua ricerca generalmente deforma, la sua fame ignobilmente contorce. E il pubblico si diverte.
Ci si mimetizza per conquistarsi protezioni, simpatie, spinte di carriera e di affari, allori e preminenze. E’ un modo per farsi portare in braccio anche da grandi.
Si potrebbe continuare.
Concludendo si può affermare che non sempre il mimetizzarsi costituisce una colpa, ma che oltre un certo limite, a seconda della moralità delle cause e degli scopi può diventare tale. Anzi ha estrema facilità a diventare tale. Ed è per questo motivo che ne esce contraffatta la sincerità della convivenza civile.
3. Il contagio della mimetizzazione
La mimetizzazione passa dall’individuo all’ambiente ristretto, da questo alla massa con facilità estrema. Si tratta di un contagio che non è solo spirituale, perché scaturisce anche dalla suggestione, dal fatuo entusiasmo, oltreché da paura, dal calcolo di conquista, dalla difesa, dall’istinto di conservazione e di imitazione, dalla illusione di raggiungere qualche scopo con minore spesa.
L’importante è che dilaga. I più grandi fatti politici trascinatori ed effimeri di questo secolo hanno data la documentazione di questo dilagare: non furono fenomeni di ragione, ma fenomeni di contagio.
Taluni fatti che ancor oggi tengono in sospeso la normalizzazione sociale del mondo in molti paesi, sono pur essi fenomeni del contagio di cui si parla, almeno in parte. Nella Chiesa stessa talune vicende meno brillanti contro le quali si leva la voce del Sommo Pontefice sono fenomeni di contagio dilagante.
Il dilagare ha le sue cause. Eccone alcune
— Il monopolio della intelligenza. La parola monopolio è sempre deteriore, anche quando indica un fatto reso legittimo da necessità pubblica. Ma quando taluni uomini riescono a creare la impressione di detenere essi il lume della ragione, della scienza, possono creare un tale timore in quelli che non siedono a posizioni accademiche da imprimere addirittura i movimenti del panico Nessuno vorrebbe passare per stupido: è solo questione di fargli credere che sarebbe stimato tale, quando non accettasse e professasse una determinata idea
— Il momento della fortuna. Chi ha denaro, può chiederne a chiunque e tutti gliene daranno. La fortuna non ha solo la provincia del danaro: le sue province sono molte. Il convincimento che qualcosa è fortunato scatena ben più che una valanga o una alluvione: tutto frana da quella parte!
— La sistemazione della quiete. Molti prendono le idee di un partito, ne assumono movenze, entusiasmi, modulazioni, furori unicamente per quietare. Questa è certamente la forma più ipocrita della mimetizzazione, ma, intanto, cosa fatta, capo ha.
Nel tempo che segue il Concilio di Rimini qualcuno poté scrivere che il mondo si meravigliò di essere ariano. La quiescenza di parecchi vescovi, la non sempre chiara e lineare condotta di Liberio, assecondò la illusione. Il mondo non era affatto ariano. Ma a disincantarlo occorsero uomini della tempra di Ambrogio e di Ilario. La sintonia colla «massa», questa spaventosa cosa che poco conserva di umano, appare sempre una prima cinta protettiva contro quello che può succedere.
Ecco come dilagano le mimetizzazioni. I pochi che vi resistono non hanno molto da scegliere: o schiantati, o infangati, o soppressi. Nella miglior ipotesi sono ignorati.
C’è una ragione profonda in questa capacità di dilagare della mimetizzazione ed è che il bagliore della intelligenza vera o falsa, l’incanto della fortuna solida od effimera, il condizionamento della propria quiete hanno per sé una tale capacità pubblicitaria, un tale montaggio di ricchezza scenica, una tale tecnica di mezzi di comunicazione da mozzare il respiro alla gente. La quale in gran parte, nella commedia del mondo, fa la parte di spettatore di cui si eccitano, orchestrano e lanciano tutti i sentimenti.
Il guaio grosso si ha quando queste contaminazioni del mondo, compaiono anche nella Chiesa.
C’è tuttavia un motivo di consolazione.
Molti che paiono perversi, sono soltanto mimetizzati. Smontarli diventa più facile; spesso basta cambi temperatura o stagione e tutto è finito. Coi guai umani, in fin dei conti camminano anche e sempre occulte facilitanti risorse!
Parte Seconda: LE MIMETIZZAZIONI
Noi scriviamo per il Clero e pertanto ci occupiamo solo delle mimetizzazioni, che lo potrebbero tentare e che di fatto talvolta lo tentano. Leggendoci, potrà anche accadere che qualcuno trovi un ritratto a sé rassomigliante.
E’ opportuno dire subito con chiarezza quale è il termine, rispetto al quale può sorgere la tentazione di mimetizzarsi. E’ uno solo: il mondo con — naturalmente — i suoi diversi rappresentanti. E ci interessa solo questo, perché mimetizzarsi col mondo, significa almeno qualcosa, allontanarsi da Gesù Cristo. Niente altro.
1. La mimetizzazione intellettuale
Il mondo ostenta un pensiero, anche se questo spesso è solo fantasia. In un pensiero si enunciano principi, criteri, metodi. Sarebbe una impresa pazzesca recensire qui il pensiero del «mondo», anche perché i più se lo creano, badando a diversificarsi dagli altri e non avendo alcuna preoccupazione della verità. Tuttavia in questa sinfonia dissonante e confusa vi sono alcuni punti di convenienza abbastanza generale e, quando uno si mimetizza col pensiero del mondo, in realtà bada a mimetizzarsi con quelli. Essi sono: la propria assoluta libertà di fronte a qualsiasi argomento di autorità e la propria assoluta autonomia di fronte a chiunque, la indipendenza dinnanzi ad ogni realtà interpretata pertanto relativisticamente, il credito fatto a ciò che piace indipendentemente da ogni altra considerazione, la capacità di trasferire a qualunque linea comoda i limiti della morale.
Questi punti di orientamento intellettuale mondano, a svolgerli, contengono tutte le apostasie possibili e tutte le negazioni più audaci ed empie.
Non sappiamo se per fortuna o per disgrazia, quasi nessuno si prende la briga di svolgere fino in fondo, logicamente, quei punti e così molti possono credere, abbracciandoli e adottandoli in forma più o meno cosciente, di non avere conti gravi, aperti colla propria Fede. E’ questo «ti vedo e non ti vedo» che permette entri di soppiatto il demone della mimetizzazione.
Entra di fatto.
Taluni hanno ridotto tutto il Cristianesimo alla «salvezza» e questo è in un certo senso vero. Ma lo fanno in modo da spingere verso la discussione, la critica, lo svanimento molti altri punti che fanno parte del patrimonio, non meno del concetto della salvezza. E qui siamo fuori della verità e della stessa salvezza. Che è successo? E’ successo questo. Un protestante, con singolare arbitrio, volle ridurre tutto al nucleo della «salvezza» lasciando ad una crociata di demitizzazione se non tutto il resto, buona parte. Trovò chi gli fece eco, ebbe illustri agenti anche in campo cattolico, fece rumore e col rumore occupò la piazza. Più d’uno di quelli che vogliono passare per intelligenti, visti gli affari positivi di Bultmann hanno cominciato a mimarlo. Nelle retrovie, moltissimi che non sanno nulla di Bultmann, si sono messi a demitizzare qualcosa, comechessia, mimando i mimetizzatori dello stesso Bultmann.
Nella interpretazione della Sacra Scrittura, pressoché tutti i giorni, in qualche Rivista o in pubblicazioni specifiche, si sentono opinioni che, chi conosce Tradizione e Magistero, non riesce affatto a conciliare con essi. Si tratta di mimare quelli che stanno sulla stessa sponda di Bultmann.
Una sezione del mondo, del gran mondo, si è spostata in chiave editoriale sulla sponda delle scienze sacre ed in genere delle pubblicazioni religiose, che sono più o meno intinte degli effati sopra ricordati. E’ credere di stare nel plotone degli stupidi, qualora non si segua quello che in tal modo si stampa e si divulga
La operazione che in sede culturale moderna da molti si conduce, con astuta finezza, separando in arte l’elemento formale dalla sostanza delle cose rappresentate o del pensiero espresso, va insinuandosi per una incosciente mimetizzazione in talune manifestazioni di casa nostra e se ne sono sentiti gli echi dovunque.
Il tacere che molti predicatori, catechisti — per non parlare di scrittori — fanno del peccato, della morte, del giudizio, dell’inferno e dello stesso paradiso si riduce ad una mimetizzazione mondana: il mondo infatti di queste cose non vuol sentire parlare. E si arriva per vigliaccheria e stupidità a doversi far veder ridere, quando altri ne parla!
Il punto dove la mimetizazione intellettuale tocca il suo apice è in sede di slogans. Ormai tutti i settori, quello teologico e religioso compresi, ne hanno un buon catalogo; ad usarlo si è dispensati dall’aver approfondito qualunque scienza mentre si può tentare con varia fortuna di far credere che se ne è edotti e profondi. Una parte degli slogans sono equivoci, anche se sono seducenti, purché facciano parte del bagaglio alla moda e costituiscano la tessera necessaria ad essere accolti in taluni ambienti, senza esserne sbranati
Vi preghiamo di osservare bene questa immensa folla che corre dietro agli slogans, li dice, li ripete, li recita persino con compunzione, convinta di dover fare così per salvare la propria reputazione. In verità l’accostamento più grande, gli ordigni intellettuali, non lo fanno né alla scienza né al pensiero, ma solo agli slogans. Ed a livello degli slogans si ha la più miserevole forma della mimetizzazione inteliettuale.
E’ sufficiente che qualche mezzo di comunicazione sociale, di quelli che parlano forte, indichi qualcosa come acquisito alla repubblica della gente fortunata, perché non si resista più alla tentazione di ripetere senza fine, aggiungendovi persino l’aria del convincimento.
Una forma diffusa di mimetizzazione intellettuale sta nel scegliere qualche gruppo, qualche pubblicazione, qualche persona ed attribuire ai medesimi la incontrastata, supina, indiscutibile direzione della propria testa. Così accade la meno costosa, ma anche più ignobile forma di mimetizzazione indiretta: non si guarda agli esemplari, ma solo agli specchi che li riflettono.
Per essa tutto quello che è del mondo, in contrasto con Cristo, colla Chiesa, coi fratelli può essere assorbito, sì da esserne ridotti impoveriti e stanchi su quella sponda dove non si trova più neppure la Fede.
2. La mimetizzazione morale
Le depravazioni morali hanno sempre dei precedenti intellettuali, perché hanno la pretesa di giustificarsi con qualche appropriata formula. Tuttavia può accadere ed accade che ci si adegui ad un determinato costume, senza affatto ricercarne i precedenti filosofici: comodità, conformismo e paura li possono egregiamente sostituire. Pertanto, almeno per qualche tempo, ci si può mimetizzare con un costume improprio ed anche immorale, senza avere la coscienza di fare una scelta di dottrina. In altri termini ci si può mimetizzare moralmente, senza perdere la Fede. Ma ci si mimetizza.
Il mondo ha abolito sostanzialmente la modestia e il pudore. Ne salva alcuni limiti legali e lo fa con aria di sufficienza, coprendo di non sempre benevola compassione chi crede ancora alla modestia e al pudore. Non ha importanza che levi alte grida dinnanzi a fatti sgradevoli di cronaca ed a crimini che sono la conseguenza dell’oltraggio sistematico recato alla modestia ed al pudore. E’ perfettamente illogico, il mondo, e questo dovrebbe bastare per giudicarlo siccome merita; ma esso probabilmente si gloria anche della sua illogicità. Il suo contegno, logico o no, ha presa su coloro che non tollerano bene di essere esclusi dalla gran sala da ballo universale. Essi, per ottenervi un posticino ed una qualche considerazione, cercano di apparire ormai spogli a tre quarti di ogni rispetto alla modestia ed al pudore. Si sporgono, si pavoneggiano di libertà, di superamento delle viete formule, disdegnano i complessi di colpa (così li chiamano), cercano di farsi sorprendere a ridere su cose serie, fanno ogni sforzo possibile per piacere ai libertini, accaparrarne la nobile stima e giungono ad iscrivere tutto questo nei temi di «pastorale moderna».
No! Non è pastorale moderna è solo mimetizzazione.
La giustizia sta morendo ed il processo per farla morire in eutanasia è il seguente. Si trasferisce il peso della giustizia alla cosiddetta giustizia sociale (giustizia sociale è in gergo di fatto, non evidentemente di diritto, quella che debbono osservare gli «altri»). Non si parla più di giustizia commutativa, di giustizia distributiva, di giustizia legale, le quali sono troppo minuziose e cogenti ed il cui onere non si può bellamente trasferire tutto e solo agli «altri». Ci si arrangia. Accadono cose talvolta, dalle quali si deve dedurre che la mimetizzazione alligna anche qui.
Canone della azione per il mondo è che bisogna cambiare, cambiare sempre, cambiare tutto. Ciò perché tutto è in trasformazione, perché si va sulla luna, ecc. Questo canone non viene mondanamente soppesato come morale ed immorale: appartiene semplicemente ad un’altra categoria, nella quale la morale non entra più. «Cambiare» ha sapore neutro ed è bene lasciarlo così senza complicarne i ritmi di evoluzione con barbose questioni morali. Ed invece l’errore è proprio qui, perché anche il «cambiare» per quanto concerne gli uomini è un atto umano e pertanto è soggetto alla morale; potrà essere buono, potrà essere cattivo a seconda di ben noti criteri, mai contenuti nel verbo cambiare e che bisogna cercare fuori di esso.
L’effetto psicologico della situazione del mito delle mutazioni è questo: poiché pare che dispensi dalle considerazioni morali (come abbiamo detto sopra), dispensa dai limiti, dai ragionamenti, dal buon senso, dalla misura. E così si è alla rotta di collo.
Le condizioni, offerte dal mito della mutazione continua, sono così tenui e generose ad un tempo, che la mimetizzazione diviene facilissima e può snodarsi fino ad un certo punto fuori di ogni rilevazione di coscienza.
Spesso quando la coscienza riprende a funzionare è troppo tardi. Taluni nostri confratelli (non qui) applicando questo modulo hanno gia eliminati i Santi dalle Chiese, alcuni osano eliminare la Santa Vergine, non si sa che cosa riserberanno a Cristo stesso nella Eucaristia. Non che ce l’abbiano coi Santi, la Vergine e l’Eucaristia, ma bisogna cambiare e mimetizzarsi quanto prima come i camaleonti. E’ difficile dire dove, per taluni di essi, finirà questa storia. Principiis obsta...
Così un margine che pare essere fuori della morale, diventa immoralità.
3. La mimetizzazione del contegno
Avremmo dovuto parlarne per primo, dato che è la porta di tutte le mimetizzazioni Se ne parla in fine perché di tutte le mimetizzazioni questa é la più stupida.
Essa fa adeguarsi nel vestito, nella tenuta, nella parlata, nel gesto, nella disinvoltura.
A questo complesso recitativo il mondo dà una importanza estrema, con esso avvolge tutto, con esso cerca di fissare i lineamenti nel volto di tutto. Poche porte resistono a questo complesso, quando la parte è sostenuta bene. Molte doti inesistenti sono ampiamente sostituite da questo complesso. Se c’è qualche dote fisica da esibire, il complesso diventa addirittura esaltante.
La tentazione di mimetizzarsi diventa consistente, anche perché l’appello fuori posto ad una astratta sostanza delle cose, facilita il libertinaggio di tutte le forme. Così più di una volta si scopre che il punto di riferimento non sono i Santi Apostoli, etc, ma i divi o i fortunati del cinema e della televisione. Si crede anche che questo faccia colpo sui giovani, dal punto di vista «pastorale». I giovani sono più profondi di quanto non si creda!
Il vestito è importante: l’abito in buona parte fa il monaco. Le recenti disposizioni della Conferenza Episcopale Italiana hanno ammesso dei casi nei quali gli ecclesiastici possono usare il clergyman, pur avvertendo che l’abito normale è la talare. Quello che ci interessa è che nessuno metta il clergyman perché vuol mimetizzarsi. Sarebbe una vergogna. Non neghiamo che possano in taluni casi esistere delle buone ragioni per usare il clergyman; neghiamo nella forma più chiara ed aperta che il volere scomparire e mimetizzarsi possa essere ordinariamente una ragione decorosa e pastorale.
Esiste un uso delle finezze mondane accessorie al vestito, alla persona, che può capirsi anche se non sempre scusarsi, della necessità di fare un certo colpo sugli altri. Neghiamo che il fare certo colpo sugli altri entri nella dignità e santità sacerdotale. Pertanto l’uso di certe finezze e comodità serve solo a discriminare i sacerdoti tra loro e a fondare un certo giudizio sulla loro vera consistenza. Tuttavia possono esistere larghe infiltrazioni di mimetizzazione in quel senso e non sono affatto gaudiose. La gente di mondo ha buon fiuto: è spesso felice di trovare un compagno al proprio livello, ma quando trova un compagno al proprio livello non trova mai un sacerdote, buono per l’anima sua. Anche se tutto può servire alla Provvidenza...
La disinvoltura l’abbiamo elencata tra gli strumenti del contegno. Non sarebbe giusto disprezzare a priori la disinvoltura, anche perché ve n’è una sana e ve n’è una malata. La prima consiste nel superare pienamente le impressioni o le inibizioni che vengono indite dal di fuori, in modo da mantenere la propria iniziativa, la propria libertà, la propria scioltezza disincantata, semplice, sincera, conforme alla tipologia del nostro temperamento e agli ordini del proprio dovere. La seconda è una recitazione artificiale, imbastita da qualcuno dei peggiori difetti: superbia, presunzione, irriverenza, esagerazioni... La prima è rigorosamente personale, la seconda può essere corale, di moda, stereotipia di determinati ambienti, codice di compagnie o di branco e magari di peggio. La prima vince veramente la timidezza e generalmente si accoppia al coraggio; la seconda ha maggior parentela colla paura e generalmente fa da schermo ad una timidezza profonda.
La seconda alletta alla mimetizzazione, perché più facile, meno impegnativa e dagli effetti più roboanti.
CONCLUSIONE
Questa Nostra lettera poteva essere assai lunga. L’abbiamo contenuta nei discreti limiti di una segnalazione ragionata. Noi dobbiamo contare sempre e soprattutto sulla grazia di Dio e sui mezzi di questa. Però non dobbiamo dimenticare che sorta di carica psicologica sia per gli altri il fatto di essere veramente, serenamente, intimamente liberi dal mondo, al tutto indipendenti dalle sue pecche, dalle sue debolezze e dalle sue mode. Soprattutto dai suoi miti. Nel momento in cui da taluni si pronuncia la parola blasfema «demitizzazione del cristianesimo», dobbiamo fortemente affermare che è il mondo ad essere coperto di miti. Può essere ne parliamo un’altra volta.
Il resistere a mimetizzarsi col mondo significa, salvare il sacerdozio. La mimetizzazione costituisce il vero contraddittorio della pastorale, la sua morte, magari lenta e per gli incoscienti indolore, ma morte. Salviamo noi, per salvare cose più sacre e più grandi di noi.
+ Giuseppe Card. Siri