1952
Il male del secolo
Lettera pastorale al clero
Cari Confratelli!
Il bene è sempre maggiore del male., Questa verità chiara e luminosa non dispensa dal considerare il male e tra tutti i mali una certa organizzazione logica o, quasi si direbbe, gerarchica.
E’ sempre interessante studiarla sia per mettere ordine nei nostri pensieri, sia per rendere più aderente alla realtà la nostra azione pastorale.
Per tale motivo abbiamo trovato conveniente chiederci quale sia il male - non diciamo più grande - bensì più caratteristico del nostro tempo.
Dopo lunghe osservazioni e riflessioni ci è parso che il caratteristico male del nostro secolo sia nella noia e nella tristezza.
In realtà il sorriso se ne è già andato in gran parte in quel settore del genere umano ove la libertà umana è morta (e tutti sanno a che cosa alludiamo); nel rimanente il sorriso viene progressivamente eliminato dal riso e dal chiasso.
Ci è parso utile scrivervene, non per fare una constatazione di più intorno ad un lacrimevole fatto, ma perchè il rendersene vivacemente conto può rendere più efficaci i salutari rimedi offerti dalla saggezza della Sacra Dottrina.
I.
IL FATTO
Noia è un appiattimento doloroso che deriva dalla monotonia, dalla immobilità, dalla aridità. Tristezza è la vibrazione dolorosa e repulsiva che si suscita e rode quando si è in presenza del male o quando non si riesce ad essere in presenza del bene. La noia è piuttosto negativa; la tristezza è sempre positiva; può anzi rivelarsi singolarmente turgida e - a modo suo - ricca. Dalla prima facile il passo alla seconda. La seconda non ha affatto bisogno della prima. La prima ha la capacità di spegnere tutto, colori, sapori, suoni, vita. La seconda può fare assai peggio: altera tutto, sa rendere oscuro quello che è chiaro, brutto quello che è bello; non si accontenta di creare il vuoto, essa lo popola di tutte le ombre della notte.
E’ dunque vero che noia e tristezza sono male caratteristico nel nostro secolo?
Tutto lo fa credere purtroppo!
Avviciniamoci per constatarlo, elencando sintomi e componenti del fatto stesso. Veramente per documentare quanto dilaghino noia e tristezza è sufficiente circolare e guardare. Può sembrare assolutamente superfluo il cercare delle dimostrazioni. Però l’insistere nell’osservare aumenta indubbiamente la convinzione.
L’abbandono della propria posizione.
C’è un fenomeno importante: è l’abbandono spirituale del proprio stato. Si tratta della disistima che troppi hanno per la propria posizione e per il proprio lavoro, solo sospirando con dispettoso dispregio a mutarlo e sempre sognando quello che non hanno o che probabilmente non avranno mai. E’ così che si abbandonano irragionevolmente mestieri redditizi per raccogliersi in posizioni sociali più linde e più affamate, che si lascia sconsideratamente la rude e sana libertà della campagna per gli affumicati sobborghi dove si gode uno svagato tramestio di banali divertimenti. Non parliamo di questa forma di emigrazione spirituale, perchè può preoccupare a proposito del futuro equilibrio nella distribuzione del lavoro, ma perché è l’indice grave di una irrequieta scontentezza, ben più che di un ragionato tentativo verso il meglio.
I messianismi.
I messianismi e le rivoluzioni esercitano un fascino strano ed insidioso. Essi pescano nel substrato di malcontento e tristezza degli uomini, dovuta in porte a vere disagiate condizioni di vita, ma in parte assai maggiore ad una situazione spirituale di ben diverse origini. Non possiamo dimenticare che nella Nostra esperienza, le famiglie più felici le abbiamo più facilmente trovate nella umile condizione, e le persone più gioiose le abbiamo ammirate più spesso tra le modestissime. Ciò sta a dimostrare che la tristezza della quale si. avvantaggiano taluni movimenti sovversivi non ha il solo fondamento nelle più contratte condizioni economiche. Qui che ci interessa però è il fatto in sé stesso.
Ma forse nulla vale a dimostrare il fatto di questa contagiosa tristezza meglio dell’esame di talune particolarità psicologiche.
Entusiasmi per cose vuote.
C’è la infantile capacità di divertirsi - o mostrare di divertirsi - per cose assolutamente vuote od almeno tali che non potrebbero da sole giustificare certi trasporti e certi clamorosi entusiasmi. Siamo ben lontani dall’amore alle tenzoni letterarie e poetiche, che ancora sopravvivono in qualche paesino d’Italia. Per spiegare quella infantile capacità di divertirsi per troppo poco, bisogna pensare a gente molto annoiata e per la quale ogni cosa di qualche apparenza diventa ripiego. Non si nega che taluni svaghi siano in se stessi ottimi e migliori di altri; solo si osserva che la sproporzione tra quanto sono e quanto riscuotono obbliga a vedere dei vuoti spirituali.
Incapacità di riposarsi.
C’è la incapacità del riposo propriamente detto. Vi preghiamo di guardare, cari Confratelli, che cosa è diventata. la domenica. E’ certo oltraggiato il servizio di Dio, ma non è meno certo che ben pochi si riposano, anche se chiamano riposo la affannosa ricerca di sensazioni più estenuanti del lavoro stesso. In questa difficoltà di fermare e compensare il faticato motore entrano pure ragioni fisiche e ragioni estrinseche, ma non si può escludere affatto il timore e la tristezza di rimanere soli con se stessi. Si fa chiasso per non ascoltarsi. Una gran parte del nostro rumore è tramestio di fuga.
Accade una cotal distrazione, nella quale non si vedono più le piccole minute particolarità della vita e dei bisogni domestici, dei doveri dell’amore, della amicizia, della gratitudine. Questi minuti svariatissimi impegni, ogni giorno perennemente freschi come le albe, cadono nella nebbia. Allora non si sa che cosa fare e - di conseguenza - si sta sempre per la strada e fuori di casa. Quest’altra fuga è un fenomeno complesso, ma indica certo una povertà, anzi una miseria spirituale. Bisogna dire che sia assai grave tristezza il riempire il proprio posto. Un giusto problema è quello di ridurre le ore di lavoro a un ragionevole volume; ma lo valutate il problema di impiegare il rimanente? I nostri bisnonni tutti questi problemi in via generale non li conoscevano. Che cosa è dunque cambiato da loro a noi?
Le eccentricità.
Chi è morto di sete, beve quel che trova; se uno non è morto di sete sceglie con cura quello che deve bere. Orbene guardate che seguaci trovano le stranezze, le eccentricità, i brividi paradossali, le anormalità autentiche, le frenesie, gli stupefacenti, le instabilità romantiche... Molto tempo addietro questa sdrucciolevole banda della strada umana era tenuta da un certo numero di ubriachi, i quali affogavano le loro proprie pene nel vino. Oggi quella raffazzonatura di tutto e comechessia pur di dimenticare e di innervarsi artificialmente, avrà altre concause, ma è certo testimone di una tragica tristezza delle anime. Ci si chiede: ma quando avviene il deprecabile contagio? Tenteremo di rispondere più tardi.
Le mode hanno una grande importanza. Esse sono delle formule anonime ed automatiche, secondo le quali - anche senza alcuna ragione - si fa qualcosa e si fa piuttosto in un modo che in un altro. Ma esse valgono per il brivido della mutazione e per il godimento di precedere chi è tardo a seguire. Ciò è tanto vero che esse mutano rapidamente. Non muterebbero così se il più non si ritrovasse proprio nella psicologia del cambiamento. In realtà sono - oltre tutto - una sorta di fretta. La testimonianza recata dalla loro voga, arriva allo stesso punto.
La esagerata abitudine del lazzo, dei modi violenti, della critica e maldicenza acerba, della ironia maligna e beffarda, sono bene spesso una sorta di pianto. E molte azioni immorali ed assassine sono anch’esse - oltre tutto - una sorta di pianto o meglio un disgraziato e dannoso modo di piangere.
Il diffuso pessimismo, la paura, il ricercato intontimento allungano ancora l’elenco dei sintomi di noia e di tristezza.
Il pessimismo e, peggio, il disfattismo è proprio dei vinti irritati. Cioè, per averlo nel sangue, bisogna esser stati vinti in qualcosa.
L’impoverimento.
Vogliamo dare una particolare importanza al fenomeno, dell’ “impoverimento”. Esso probabilmente raccoglie quanto è stato detto fin qui e quanto descriveremo oltre, tuttavia ha un suo caratteristico aspetto e vale la pena di esaminare tutto il fenomeno - che è oggetto di questa lettera - da tale punto di vista.
Si ha un “impoverimento” quando si perde qualcosa di quello che competeva. Ecco: proviamoci ad ascoltare i discorsi casuali della gente. Elenchiamo quello che prevale: i piccoli casi e le preoccupazioni occorrenti (deficienza di orizzonte), il piccolo pettegolezzo e la piccola critica (deficienza di fantasia, prima ancora che di moralità), quello che corre sulla stampa e, se si va in ambiente più raffinato, sui libri di turno nella moda (deficienza di iniziativa e personalità con ripetizione pappagallesca), divertimenti dai più sani ai più sconci e - soprattutto - loro oggetti dal pallone all’osceno (deficienza di anima), millanterie sia narrative che provocanti (deficienza di intelligenza).
Questo per i discorsi casuali ed essi stanno al passo col rimanente.
Eppure ci sarebbe ben altro.
La anche più umile vita ha una vivacità di particolari reali, sperati e sognati; ha davanti i progetti che si rifrangono e si moltiplicano per tutti i piccoli casi e tutte le piccole cose, indorandosi al fascino del miglioramento futuro. In essa tutto questo si arricchisce della amicizia, della pietà o dell’amore per gli altri. Amicizia, pietà ed amore, addotti sugli umili casi li fanno di tali colori e di tale moto da esprimerne persino altissima poesia. Ove questi sentimenti, aperti a tutti e facili agli ignoranti ed ai mediocri, si animino - sia pure per le umili cose - di intelligenza, di gusto e, soprattutto di motivi morali e soprannaturali, costruiscono nel poco un mondo dalla infinita e fascinosa varietà.
Ecco un giovane, il quale non sa neppure ancora chi sarà la compagna della sua vita, ma il suo tempo lo stempera nei piccoli e grandi dettagli con cui prepara l’avvenire, la sua casa, il suo nido; egli ha di che vestire ad ammantare tutto questo col futuro, che gli è presente, che la fantasia gli colora ed il cuore amabilmente gli accende: non ha tempo per annoiarsi. E per tutti in colori e gradazioni diverse è così. Attorno alla pur umile vita c’è l’universo dalla infinita varietà e ricchezza, c’è il sole, c’è la campagna, ci sono le acque, ci sono le albe, c’è tutto perfettamente ritmato da una Saggezza Eterna, con tutte le vibrazioni e la potenziale capacità delle anime; aduggia alla loro porta e non chiede che di entrare sicchè tutto vibri, risuoni e, canti. Attorno ci sono gli uomini ed i fatti; i primi anche quando sono mediocri e cattivi, non riescono a tarpare l’originale slancio di vita a loro proveniente dall’atto creatore, i secondi non meno dei primi, mescolati come sono ed intessuti di leggi e contingenze, di libertà e necessità, modulano senza poso la loro narrazione avvincente.
E tutto questo appare cada, si allontani e si dissolva qual nebbia; in mano alla maggior parte degli uomini non rimangono che poche cose monotone, forse insulse, spesso lerce colla finale del pianto.
Questo è l’impoverimento. L’orizzonte si restringe, l’universo sta in un buco, la vita diventa talmente poco, che non c’è da meravigliarsi se lo sguardo se ne ritrae, per fissare il vuoto e divenire triste.
I pericolosi sbocchi, che devono delle cose, degli uomini e della vita far solo delle espressioni letterarie per la loro vanitosa quanto querula voluttà di sentenziare e declamare, le diranno “momenti da romantici”, però non sarebbe più ricca la gioventù se vibrasse di ardore missionario, di ideali da Crociati, di entusiasmi patriottici, di generosi doveri? Non è molto tempo che un Rettore di Istituto ci riferiva che alcune mamme di alunni si erano aperte con Lui su questa preoccupazione: “non sappiamo più come far passare il tempo ai nostri figli! Questa è la nostra questione più grave”. E’ terribile che ciò sia vero! Dunque è vero che il mirabil universo, per molte sue sciocche creature, Dio fino a un certo punto l’ha creato invano!
Questo impoverimento ha una scuola. E la scuola è nel mettere l’accento continuo su alcune poche cose più immediate, più comode, meno impegnative e più lontane dal sacrificio; il più comodo cattiva, aiuta ad adagiarsi, ma sottrae la capacità di sentire di vedere e di godere oltre. Inaridisce.
Guardate dove stampa e spettacoli, discorsi ed esibizioni, finiscono col mettere l’accento. Si ha la sensazione di una universale quanto idiota congiura per impoverire via via sè e gli altri. La porta delle più alte gioie e delle vere umane ricchezze è stretta quasi quanto la porta del Paradiso.
Per la più parte della gioventù delle nostre città e non solo di quelle, se togliete due o tre voci che indicano passatempi (e non sono termini liturgici), nulla più rimane che una mortale tristezza. Si è preoccupati di aprire porte e finestre, di dare autonomia perchè “si facciano”, di stimolare una falsa personalità fatta di comodi e di petulanti pretese e con tutto questo li svuotano di una ricchezza interiore e li lanciano poveri verso la vita facendo della stessa tristezza, prima una moda di esibizione e poi una tomba.
Chi racconta storie per far denaro, chi vende panzane per farsi politiche fortune, arrivano allo stesso scopo: quello di impoverire la vita degli uomini.
Che ogni più piccola onesta cosa ha da Dio capacità in germe di essere una fortuna, di riempire di decorosa soddisfazione, quando si vesta di spirituale ricchezza e dignità, non lo si intende più; la cerchia si restringe ed invece d’avere sotto i piedi un continente ci si ha uno scoglio, sopra la testa un Cielo ci si ha un miserabile soffitto.
Parlando di impoverimento spirituale non bisogna dimenticare come psicologicamente parlando lo stato di serenità e di euforia ha bisogno funzionino normalmente gli elementi dei quali si fa il nostro equilibrio interiore, intelligenza sentimento, istinti... Se taluno di questi risulta attutito o bruciato dalle abitudini contratte, si chiude una porta e l’impoverimento deriva anche dal fatto che qualche passaggio è sbarrato. Pensare che tutte le abitudini peccaminose e tutte le eccessive ebbrezze fanno appunto questo regalo!
Il troppo che non serve più.
Un indice dell’impoverimento e pertanto della noia lo si ricava inventariando quello che “non serve più”.
Osservate, non dirò la facilità, ma la frettolosità leggera con cui ci si sbarazza dei malati e dei vecchi, I conti delle spedalità e il carico della carità ne dicono qualcosa. Eppure si tratta il più delle volte degli stretti parenti, dei genitori. Per costoro basta una malattia e basta che questa ne renda un po’ penosa la assistenza, perchè con tutto il loro passato, i loro meriti, il loro calore non “servano più”. In tali contingenze le persone più care sono perdenti di fronte al bisogno della propria libertà, del proprio comodo e dello svago.
Cose che costano poco o tanto - a cominciare da quasi tutta la stampa - hanno pochi momenti di servizio attivo, si incalzano e si seppelliscono a vicenda; a pochissima distanza dal desiderio che le aveva ardentemente cercate “non servono più”.
Le mode invadono tutto: cose, contegno, stile, metodi; il loro gesto imperioso è quello di interrompere anche d’un colpo quanto è ritenuto conveniente e decoroso e giusto; con quel gesto un pezzo di mondo “non serve più”! E la corsa continua.
Ideali, passatempi, amicizie seguono facilmente la stessa sorte.
Dall’oggi al domani in questo strano mondo tutto è vecchio.
Nessuno ricorda le decantatissime novità dell’anno innanzi. Fate il confronto tra una biennale e l’altra, tra un festival di Venezia e l’altro; vedrete quanto durano le primavere.
La disperazione di questa noia è giunta a tal punto ed a tal paradosso che i nemici sono il silenzio e la pace, sì, la pace! Ed aggiunge che, per lo stesso motivo, amici sono i guai e le sciagure, pur di cambiare e vincere il tedio!
La Pace! Guardate come la fuggono. Gli è che la “pace”, tolta la odiosa oppressione del disordine esterno, ritorna all’anima la libertà di essere e di farsi sentire, di conoscersi e di riportare in luce la propria vergogna, di mettersi a confronto colla verità e col bene e di accorgersi delle proprie illusioni. Senza la pace, tutto questo grida ovattato, ma, se c’è la pace tutto questo urla violento. Ecco il paradosso! La pace non serve. Così, almeno, pensano!
Svanire nella vaporosità.
Osservate l’impegno di sfuggire le cose ben definite, composte e razionali. A questo singolare impegno corrisponde uno stile di vaporosità.
Infatti. Nell’arringo filosofico, se non si è astrusi, ci si declassa al livello dei “grammatici pedanti”, nulla si sa della intuizione, si è rimasticatore di formulette scolastiche e non si ha affatto udito per il brivido vitale istintivo ed indipendente proprio dell’anima moderna. Di conseguenza è decaduto l’uso di definire parole, concetti e posizioni, di attenersi al corrente significato delle parole, di essere coerenti da una pagina all’altra quanto al senso una volta attribuito alle parole. E’ povertà ordinare le idee secondo uno schema razionale; i lampi, i gorgoglii e i vortici di parole sostituiscono i vecchi sillogismi.
Anche letterariamente è il tempo delle impressioni, dei sentimenti e degli stati d’animo. E perchè?
I fatti sono diventati principi (storicismo); così, poichè sono sempre in cammino, non si prende con essi alcun impegno preciso e se si vuole - finchè l’illusione dura - è agevole camminare nell’equivoco, creduto una volta tanto “libertà”.
Alle proposizioni con soggetto e predicato si preferiscono gli accordi, perché in tal modo donano solo emozioni e niente di idee precise, le quali sono sempre o prima o poi imbarazzanti. Fatti seri e impegnativi vengono sciacquati in barattoli di colori carichi, ed è più facile allora coprirli - perchè non disturbino sentimenti profondi - con un riso scettico scanzonato e - sopratutto - leggero.
La letteratura, quella di classe e quella di suburra, non ha solamente delle impressioni e degli stati d’animo, certamente! Ha i suoi temi e le sue tesi, ma nella maggior parte dei casi temi e tesi sono per demolire qualcosa ancora della gioia degli uomini. La intelligenza e il raziocinio sentono i colpi duri inferti alla loro stima da oltre un secolo di critica Kantiana; per questo amano mimetizzarsi.
La vaporosità permette il rifrangersi indefinito di ipotesi e pareri, agevola tutti di inventare quello che credono e di cambiare con comoda prestezza.
Le nubi tolgono dal raggio visivo i punti di paragone, le pietre di confronto; così si dice e si fa quello che si vuole, quello che risolve il problema o l’imperativo del momento, quello che è convertibile in denaro sonante.
Non sapendosi bene dove cominci e finisca il bene o il male, la verità e l’errore si ha la agevolazione di poter invertire i termini di ogni cosa in lode e gloria del relativismo, il quale è precisamente quanto ora si è detto.
Questo sfuggire alle cose ed alle idee definite e precise, questo bisogno di lasciare tutto versatile e reversibile è un preoccupante indizio di stanchezza. Bisogna ritenere che c’è timore a prendere impegno con qualunque idea per essere in grado di fuggire in ogni direzione. Oscuramente si percepisce che il bisogno di fuggire in qualche direzione ci sarà, che è bene le direzioni siano distribuite in un angolo di trecentosessanta gradi per maggior sicurezza di fuga e la stessa ricerca morbosa della possibile e pronta e libera fuga depone della noia di ogni situazione presente.
Si tratta di uno stile che è nell’aria e non solo nelle persone. Il che è peggio.
Il sintomo si acuisce in campo d’arte. L’arte in gran parte ormai odia il bello. Nessuno le contesta di cercare l’esistenziale, il vitale, l’istintivo, il soggettivo, l’astratto, l’ideale, il geniale, l’originale, il nuovo, il reazionario, il rivoluzionario, il funzionale, il provocante, lo sbarazzino, l’isterico, il paradossale, lo spettrale, il fantomatico. Essa non vuole il bello. Ha radiato anche il termine dal suo linguaggio. Conserva talvolta il senso della luce e l’amore del colore. Però è talmente lontana dalla natura che fa sospettare la voglia fuggire. Con questo non si dice che il novecento non debba avere la “sua” arte. Si dice solo che anche gli uomini del novecento hanno la sete del bello e che questa sete non è loro affatto corrisposta dalla produzione detta artistica, nella maggior parte dei casi. Aria di fuga. Che cosa mai significa essa?
Forse significa la gran noia del mondo? Potrebbe anche essere. Potrebbe accadere che tra non molti anni la rivolta contro il passato continui ed investa quello che nel mondo d’arte oggi è considerato “attuale”.
Spesso la interpretazione interiore di una cosa, di un fatto, di un momento pare in arte che miri a servirsi di una smisurata libertà di esprimersi per cambiare il mondo od almeno rivoltarglisi contro per la troppa noia che gli ispira.
Siamo rimasti stupiti di sentire formulare da autorevoli rappresentanti della critica d’arte l’accusa al Cristianesimo di non aver creato una sua arte od anche solo architettura nel novecento come l’aveva creata od ispirata nel periodo romanico e gotico. Non rovesciamo le cose! La verità è che il Cristianesimo è rimasto oggi pressoché solo a difendere il “bello”, perchè crede in Dio, crede nella vita eterna, non ha bisogno di fantasmi e di spettri, non è avvolto dai fumi di ubriacature disperate e non confonde lo stato di veglia collo stato di sogno paradossale e sconclusionato. Non è tempo perduto quello impiegato a “tenere una posizione”, quando i gregari dell’arte si scostano in maggioranza dacchè hanno sentito il canto della sirena invitante ai lidi dell’istintivo hegeliano o crociano o dell’inconscio freudiana. Sì, il Cristianesimo “tiene la posizione” per quando si ricomincerà.
Non dunque stasi nella ispirazione cristiana, ma stasi nella ragionevolezza. Bisogna ricominci la pura e schietta gioia di essere al mondo e si esca dall’incubo. Stanno provando occhiali di tutti i colori e non capiscono che il meglio sta nel togliersi appunto gli occhiali, per vedere la luce, siccome la manda il sole. Ma tant’è, il fare diverso rimane il capitale espediente della noia.
Cari Confratelli! Il fatto del quale ora vi abbiamo registrati alcuni fondamentali manifestazioni e sintomi, diventa particolarmente angosciante, se ci si avvicina a misurare il grado di sopportazione della faticosa vita nonchè il limite - ahimé vicino - in cui comincia la rivolta contro di essa; se si bada alla immensa folla che ormai cammina col capo abbassato e stanco sulla polverosa strada di sbiaditi destini.
Allora si guarda il Cielo e si invoca che attraverso nubi, finalmente squarciate, costoro siano dardeggiati dal sole e se ne accorgano.
II.
LE CAUSE DEL FATTO
Fin qui ci si è occupati dei sintomi rivelatori di un fatto, il quale può venir negato logicamente da coloro che hanno interesse a non toccarne le cause imbarazzanti e a non cavarne le conseguenze fastidiose. Vi sono infatti degli uomini per i quali è assiomatico che “va tutto bene”, che non c’è decadenza, che non c’è edonismo, che non c’è noia; la ragione è che ne cavano qualche beneficio.
E’ tempo di chiederci: quali adunque le cause della noia e tristezza del mondo in queste allarmanti proporzioni? Cerchiamo di dare una risposta.
Vi sono anzitutto delle cause storiche, le quali possono anche apparire superficiali; sono tuttavia reali ed operanti. Osserviamole.
Cause storiche.
Due guerre mondiali hanno incanutito il mondo. Esse non hanno solamente messo in campo tutte le nazioni più o meno civili, le une contro delle altre; hanno fatto assai più. Hanno cambiato le scoperte in strumenti di morte, hanno avvelenato tutto, hanno ucciso il diritto e la pietà, hanno creato le deportazioni, i campi di concentramento, gli esperimenti chimici fatti colla carne umana e finalmente il genocidio. Ne è rimasto un principio di pazzia in tutti gli avvenimenti.
Queste due guerre fanno da sfondo a quanto si ricorda del passato e a quanto si teme per il futuro. Il loro orrido ed amaro tratteggio staglia contro la luce ed una triste ombra si allunga sul cammino degli uomini.
E tuttavia, fosse solo il lugubre motivo delle guerre, bisognerebbe pur dire che il motivo della tristezza è esterno agli uomini. Non è così.
Cause sociali.
Le guerre col loro sanguinoso e tormentato scompiglio creano vittime e creano fortunati, distribuiscono a caso e pazzamente la vita e la morte; mentre mandano molti all’orco ad altri fanno bruciare tutte le tappe, uccidono re e portano somari in groppa. Così danno agli incantati giovani il sogno di una vita che non è più fatta di gradini e di tempo, di fatiche e di attese, ma che è creduta e bramata in avventurose vicende, in romanzeschi colpi di fortuna, in aura di primati impetuosi e di vittorie superbe. Tutto il rimanente, ossia il comune ritmo dei comuni giorni diventa triste.
Questa abitudine mentale si estende oltre gli stessi disagi economici, postumi delle grandi guerre e li supera pel maligno influsso.
Sarebbe necessario che gli uomini sentissero un’altra voce equilibratrice e meno illusoria. Ma accade che le illusioni solleticano e la realtà respinge.
La causa della tristezza questa volta non è più dall’esterno soltanto.
E’ accaduto di peggio. Per aver ottenebrato qualcosa, molti uomini hanno creduto che chiunque stesse un po’ meglio di loro fosse loro nemico dichiarato e ciò hanno fatto perdendo la distinzione tra un “meglio” ingiustamente acquistato ed un “meglio” onestamente raggiunto. Dall’altra sponda, pure per aver ottenebrato qualcosa, molti uomini hanno creduto che chiunque fosse peggio di loro dovesse ineluttabilmente essere loro nemico. Così una parte notevole del genere umano, sia da uno parte, sia dall’altra parte (non importa) si condanno da se stesso a vivere davanti ad un nemico. Ed ogni cosa gli appare oltraggio e minaccia.
In realtà basterebbe sapere che l’esserci delle innegabili questioni da risolvere non significa necessariamente odio e guerra. Ma a questo non badano: si guardano in cagnesco, mangiano fiele, si fanno paura e ne restano irrimediabilmente amari e tristi. Come se la terra e il cielo fossero per loro un brutto scherzo.
La lotta sociale diviene una tristezza endemica. -
Le superficialità.
Ma c’è un fatto più universale e più profondo, che pare costruito con avventure, orientamenti, sfumature imponderabili di secoli. Esso accusa quanto i destini si leghino anche a piccolissime cose, per la ragione della loro persistente causalità e connessione misteriosa oltre la vita ad onta della morte dei singoli uomini.
Si può riassumere così.
L’interesse nella vita degli uomini si sposta troppo alla superficie. L’anima rimane profonda e non cessa mai dai suoi forti ed anche terribili appelli. Di qui lo squilibrio: qualcosa le è tolto ed essa a sua volta toglie della luce e dello sfondo di ogni cosa.
E’ necessario analizzare tutti questi termini, descrittivi d’un fatto assai più grave dei contrasti, ad esempio, tra la mentalità asiatica e quella europea.
L’interesse del quale si parla (evitiamo gli equivoci) è la attuale attenzione dell’anima, quello di cui essa è portata ad occuparsi, magari contro sua voglia e - sia pure - provandone dolore. Si tratta insomma del fatto per cui occupazioni e preoccupazioni in forza della complicata vita di relazione, della folla, del timore, dei bisogni mirano all’esterno. Osservate: su cento due faranno un esame di coscienza o qualcosa che gli rassomiglia, gli altri non lo faranno o lo sfioreranno solo e si eserciteranno invece a far l’esame di quanto leggono sul giornale od apprendono dalle chiacchiere, criticheranno, suggeriranno, condanneranno. Alla introspezione di sè si sostituisce volentieri la disquisizione anche malevola su quanto fa lo Stato, il Comune etc. Su cento giovani ne potrò trovare cinque che si attardino a considerare della loro vita interiore con un certo metodo, ma quasi tutti si daranno da fare per seguire gli avvenimenti sportivi.
Del resto questo interesse ha visto aumentare incredibilmente il suo stimolo. Infatti molte vicende lontane si sono avvicinate e attirano l’attenzione, gli spostamenti sono facilissimi; avventure e questioni che non avrebbero alcun legame serio colla vita dei singoli entrano in ragion del progresso ad ingombrare se non ad occupare il sentimento e gli entusiasmi; cambiamenti, rinnovamenti, ondate: un gran correre che sollecita ed impegna gli spiriti, per non parlare delle complicazioni. Dove il rumore è minore - in campagna ad esempio - quel poco che arriva è sufficiente a scatenare desideri ed appetiti, scontentezze ed illusioni. La sollecitazione organizzata a scopa di lucro, per aumentare tutti i bisogni, per far ritenere necessario anche l’inutile, per aizzare l’istinto della divagazione festaiola, fa il rimanente.
Osservate come la perfezione tecnica abbia rese di percezione comune e patrimonio di tutti quanta era dei singoli o di pochi. E’ certamente anche un bene, ma la vita ne è ingombra.
In definitiva: impressioni infinite, sensazioni senza numero, agitazioni interiori non meno per il necessario raccordo tra corpo ed anima; attività puramente interiore, ponderazione e gusto delle cose vagliate e illuminate, troppo poca. Il motore gira a vuoto. Eppure il vero contorno a tutte le cose esterne ed alle sensazioni da esse promananti è fatto dal loro fissarsi agiato e sereno nell’anima, dal prendervi col tempo e coi supervenienti riflessi contorno volume forza e vibrazioni. Il suono degli strumenti a corda non è pieno e bella senza la vibrazione che segue alla percussione; fa da alone fonico quella vibrazione e non sarebbe di gusto l’inibirla. Così è in noi. Il vero valore ogni umana esperienza, sia piccola, sia grande, non importa, l’acquista da questo suo riflessivo adagiarsi non senza pause e silenzi nel mondo interiore. A togliere questo alone le cose e la vita rinsecchiscono, non perchè diventin obbiettivamente diverse, ma perchè manca loro - mentre entrano - l’agio di una vibrazione interiore. E allora piangono perchè la luce non par più luce, perchè i colori non paiono più colori, perchè il cielo e la terra, il sole e le ombre nella loro diversa maestà più nulla hanno da dire e neppur si guardano.
Ci pare ormai chiaro che cosa significhi stare in superficie. Allora l’anima non ha tempo e modo di illuminare convenientemente quello che dovrebbe illuminare: l’amore, la famiglia, l’amicizia, la conversazione, la cultura, la natura, le infinite ricchezze delle anime altrui e l’inesauribile umore di pace e di gioia che può essere tratto anche dalle più semplici e comuni contingenze dei doveri e del lavoro. E tutto si rabbuia, mentre le pupille per il nativo istinto cercano la luce.
Si è detto che l’interesse tende sempre più ad andare in superficie; si potrebbe affermare che molta della attività - senza interesse - tende a rimanere semplicemente in superficie. Ciò accade tanto quanto entra l’automatismo nelle azioni; è infatti carattere dell’agire automatico che lo si possa effettuare senza attività interiore vera e propria. Poichè gli atti automatici sono tuttavia un ingombro perchè se ne possa accompagnare loro di specie diversa, l’agire automatico diviene una specie di sonno in stato veglia, una penosa inerzia. Il pericolo è più grande di quanto si creda: il perfezionamento tecnico tende e tenderà sempre più a rendere minimo, meccanico e automatico il lavoro di molti operai; la organizzazione più confortevole della vita si appoggia sul fatto che domanda il minimo e questo può facilmente divenire automatico. I riflessi psicologici di questo stato di cose sono gravi. Non è questione di un particolare che si verifichi talvolta e qua e là, no; si tratta di un universale indirizzo del nostro progresso. La natura dell’uomo colle sue risorse e colla suo elasticità ha capacità inaudite di adattamenti equilibratori; ma che tali capacità abbiano in fin dei conti dei limiti, lo sentiamo benissimo da tutto quello che è stato fin qui descritto.
Ma non è tutto: la aridità interiore frutto del troppo vivere in superficie, ossia nelle cose esteriori ha un altro aspetto che è il più grave e che - a nostro giudizio - porta con sè la vera sostanziale ragione del male del nostro secolo. E’ ora di occuparcene.
Manca il necessario sfondo a tutte le cose.
Ogni atto umano ed ogni cosa che cade sotto la percezione o considerazione umana ha intorno un “alone” fatto di quello che tra poco enumereremo. Questo alone, che pochissimi analizzano, decide del grado di luce o di tenebra che in modo cosciente o subcosciente avvolge fatti e cose. Permettete lo si descriva.
In ogni cosa o fatto è - anche confusamente e per lo più imponderabilmente presente - il mistero, il domani, il limite, la caducità, il confronto, il dolore. E forse l’elenco potrebbe allungarsi. Ecco l’ “alone” fatto non di luci, bensì di ombre. E queste ombre, per andarsene, chiedono dei principi o delle realtà solventi. Quali?
Gli elementi dell’ “alone” si compongono con infinita varietà a seconda dei casi e cioè a seconda dei soggetti (tipi), delle circostanze, degli stimolanti.
Le imponderabili ombre si possono alterare, tamponare, artificiosamente divertire con lo stordimento. Questo però fino ad un certo punto, perchè o prima o poi giungono a prevalere e domandano che alle cose ed ai fatti si dia uno “sfondo chiaro”, una logica convincente, una ragione completa definitiva ed eterna.
Tutto questo accade per il più semplice fatto ed a proposito della più semplice cosa, tanto è vero che spesso l’uno o l’altra, inspiegabilmente e per una ragione profonda, come se riassumessero una storia di dolori o una sequenza di ragionamenti tristi, spengono entusiasmi, rinfacciano una dura realtà della vita, fanno risuonare sotto un vuoto pauroso, assumono volto di oscura minaccia e infiltrano la più sottile penosa nostalgia.
Analizziamo meglio queste ombre, pronte a porre per ogni più piccola cosa un problema grande e più grande dello vita.
Il mistero. - Tutto ha punti che non sono chiari. Quando qualcosa è o sembra chiara in se stessa, si ricollega a punti che, interrogati non rispondono. Quando San Tomaso ha voluto riassumere le cinque vie che portano alla affermazione di Dio (I, Q, 3, A. 3) ha preso come punti di partenza i cinque profondi principi — differentissimi tra di loro — che sono in ogni cosa: il moto, la causalità, la contingenza, i gradi, l’ordine. Questi principi aprono sì la via verso l’infinito, ma fanno anche risuonare ogni cosa di un mistero profondo. Naturalmente tali termini sono scientifici e non sono di facile accesso a tutti, se parliamo della loro formulazione, ma interpretano quello che oscuramente ognuno sente più o meno confusamente in presenza di tutte le cose.
Lasciamo pure andare i termini scientifici. Sapere perchè un uomo abbia detta una parola piuttosto che un’altra è cosa da perdercisi; perchè mai perisca un fiore ammirato come bello, è entrare nella notte... A meno che...
Il mistero ha sempre una certa durezza. Gli uomini lo combattono anche accanitamente col “diversivo”, ma esso ritorna.
Quest’ombra che cosa invoca?
Invoca che “oltre” ogni cosa, quasi sfondo chiaro e sereno, componente e rasserenante, ci sia una spiegazione, una motivazione semplice di tutte le cose, ultima, certa tranquilla, perfetta. Anzi occorre che questo sfondo “oltre” sia permanente e tenuto sufficientemente sgombro.
In altri termini occorre che dietro ai mirabili fiori, per il cui appassimento soffriamo noi si veda una ragione quietante, la quale assicuri che questo è bene ed è bello e che quello che è stato meraviglioso in un attimo fuggente e poi si ritira, dovrà ritornare per non illudere il vincolo di simpatia che nello stesso fuggente attimo ha suscitato. Diversamente ogni cosa splendida è oscura, proprio perchè splendida. Il che parrebbe paradosso ed è verità solenne, impressionante.
Il domani. - Ogni cosa o fatto che è, poi non sarà, non sarà allo stesso modo, potrà non essere, avrà succedanei, potrà non averli. E’ afferrato dalla ruota del tempo che impassibilmente e sordamente gira. Tutto o quasi, almeno sotto qualche suo aspetto dona il senso della sua instabilità. Siamo alla ansietà. Sia pure in piccole dosi, neppur sempre subito rilevabili, essa accompagna.
E’ facile ammetterla per il pane, per l’amore, per la pace, per la vita. Ma essa non accompagna solamente i massicci ed illustri argomenti. Accompagna tutto. A meno che... Bisogna poter mettere nello sfondo qualcosa che stia “sopra”, che incomba come una garanzia, perchè in esso ogni instabilità si placa.
Il limite. - Nulla è più di quello che è, neppur per secondare il desiderio che lo vorrebbe maggior di quello che può essere. Tutti ci finisce, ci urta, ci strozza. Non si può dire: “più luce; più tempo; più oro; più salute; più gioia.” Il tramonto di ogni giorno parrebbe aver l’incarico di ricordare agli uomini questa “ombra” della umana esperienza. Il “limite” ha delle sottolineature drastiche colla “prevalenza” che forze naturali e spirituali hanno su di noi e sulla nostra impotenza: i cicloni, le alluvioni, i terremoti, le pazzie... la cattiveria di taluni uomini, l’avversa fortuna...
Il “limite” mozza il respiro, fa ruggire l’istinto della libertà. La forza che sprizza dalla umiliazione perenne, che esso infligge alla nostra umana esperienza, chiama a gran voce l’infinito. E può esserci un dramma anche in questo chiamare, non voluto, irritato, a sua volta umiliato; ma chiama l’infinito.
Bisogna che esso si apra a sfondo perenne.
La caducità. - Non è solo questione che tutto è instabile; è questione di valore che decade. Ossia: il più di quello che oggi vale ieri non valeva o non valeva come oggi, domani non varrà. Il valore delle cose regge pressochè tutti i rapporti loro colle altre cose: la inflazione e la deflazione dei valori nel fluire del tempo appare come il respiro del mondo e forse come il gemito della sua caducità. Per tale motivo il decadimento dei valori può essere paragonabile alla notte.
E la silenziosa ombra ancora una volta si allunga sulla esperienza umana.
Bisogna - perchè sia altrimenti - che dietro ad ogni caduco valore si levi una “ragione eterna”, nella quale riemerga quanto appare morituro od inghiottito dall’instabile flutto. Bisogna pensare ad un punto - fuori del moto e della caducità - nel quale tutti i valori ritornano.
La rivolta alla caducità è la più tremenda lacerazione che gli uomini fanno di se stessi.
Il confronto. - E’ il dramma del più e del meno. Si veste di desiderio o di invidia, di gelosa nostalgia o di rimpianti. E’ talmente relativo e cioè si sposta talmente per imponderabile soffio tra un indefinito ed irraggiungibile “più” ed un evanescente “meno”, da rovesciare i termini e far parere poco quella che è molto, insufficiente quello che in realtà sovrabbonda... Sia nel ricordo, sia nella attesa tutto pare raggiunto da questa ombra. Bisogna che sullo sfondo appaia un “ordine” amoroso e perfetto, nel quale tutto risulti talmente a posto in se stesso e per una superna missione da sfumare e respingere l’ingannevole confronto. Essere in un “ordine”, in una piena e giustificata e documentata “finalità” dispensa dal misurarsi con altro.
Se questo non accade l’ombra del confronto taglia spietata il gusto delle cose.
Il dolore. - Ogni fatto ed ogni realtà ne porta o una traccia, o un ricordo, o un vago timore. La stessa preventiva difesa lo rende già presente. E’ il mesto compagno di viaggio. Talvolta rimane un po’ indietro, ma è sulla via.
Esso è l’ombra che si ispessisce di tutte le altre ombre.
Bisogna che cose e fatti abbiano sullo sfondo loro una finalità e questa felice. Cioè occorre sapere che finirà e che esso stesso confluisce in una eterna pace e gioia, sì da non essere - non pur dannoso - ma neppure inutile.
Qualcuno sorriderà, pensando che ad ogni cosa e fatto nessuno si sogna di aver presenti i punti di questa lunga analisi. E’ verissimo che quanto abbiamo detto non è in genere presente in modo distinto, Il più delle volte non è neppur rilevato.
Ma quanto si è detto è l’analisi di un imponderabile disagio, di una vibrazione, di una piccola ombra, la quale o prima o poi attraversa tutto e che - ad essere medicine, non sanno affatto della loro composizione chimica o biochimica, però sentono in genere qualcosa, che è indotto dalla presenza di determinati elementi in una certa proporzione - si scompone precisamente in quei piccoli elementi. I più che ingeriscono certa proporzione; avvertono la somma dell’effetto. Somma non c’è senza gli addendi. Per ragionarne, giudicarne, bisogna pur conoscerli!
Questa somma è facile sia permanente e venga disponendosi come una abituale patina della stessa vita, come - peggio - un avvelenamento anche progressivo di ogni esperienza, come una invincibile stanchezza ed una tetra condanna.
Possiamo finalmente riassumere e venire ad uno conclusione.
Le cose e i fatti, la stessa vita, sono percossi e pervasi da quell’amaro brivido cagionatore della noia e tristezza, nella misura in cui ad esse manca uno sfondo oltre e sopra di noi, divino, eterno, ordinatore, felice.
Questo sfondo, concreta garanzia contro la inutilità e la morte, contro la stessa disperazione del nulla, potrà essere diluito, potrò rimanere presente senza smaccati colori, ma ci vuole! Ove manca, cade una intima ragione di sostegno, che è collegata con una non meno intima ragion di soddisfazione e di gioia, scoloriscono figure e contorni, le affermazioni diventano interrogativi, le pause diventano vuoti, i silenzi si fanno torture. La necessità di quel tale sfondo, per dissipare l’alone inevitabile delle ombre, si configura come una legge austera e inderogabile, contro la quale non giocano nè le culture, nè le tirannie, nè le distrazioni, nè le ubriachezze.
Che nella vita degli uomini ci sia una travatura premeditata, accudita dalla educazione fin dagli inizi perchè quello sfondo mai abbia a velarsi, appare come imperativo primo per coloro i quali non vogliono accettare di render disperati o prima o poi i propri simili.
Si sono staccati dal Culto Divino!
Usciamo dunque dal gergo: quello sfondo è il Cielo, è Dio ed è tenuto fisso e capace sul nostro orizzonte da tutto l’insieme dei rapporti che ci legano a Dio. Ossia la terra è condannata a gemere, se non si illumina del Cielo. E l’unica cosa capace di sostenere il mistero della terra, di equilibrare la terra, è il Cielo.
I rapporti con Dio sono anzitutto nel culto a Dia e a questo culto inteso nel senso più comprensivo e più largo, appartiene il viver decorosamente morale, poichè non si adora Dio senza accettarne in concreto e verità e legge.
Quello sfondo gli uomini hanno rimosso in una irragionevole euforia di sufficienza, e la loro vita non ha più come principale impegno, in ogni piano il culto del Signore; con questo hanno dilapidato il primo naturale costitutivo del loro equilibrio morale, vitale e psicologico, la più grande componente della loro pace e pertanto sono condannati alla noia ed alla tristezza.
Sappiamo benissimo che cosa urta tale affermazione farà dire a coloro che diventano idrofobi al solo nominare il culto doveroso a Dio; ma ciò muta nulla, le cose rimangono quelle che sono e nessuno che si renda colpevolmente privo dello sfonda del Cielo riesce e riuscirà mai a mangiare in continua, sicura e sincera serenità di spirito il suo pane. La terra - ripetiamo - non la si equilibra che col Cielo. E ciò non perchè lo diciamo noi, ma perchè nessuno libererà mai l’esperienza dalle ombre elencate sopra, se non a patto di saettarvi contro la luce del Cielo.
L’affermazione è gravissima, è sconcertante, obbliga a rivedere tutto. Strano questo forse in un - momento in cui tutti, in Oriente ed in Occidente, sappiamo benissimo ed a ragion provata che una sola scintilla può fare saltare tutto? Ogni giorno cammina sul baratro ed è strano come, proprio la visione di quell’abisso non induca ad affermare - da parte di chi vuole sopravvivere - che si debbono porre problemi di gioco e di revisione di tutto.
Lo sconcertante della affermazione sta nel dire nettamente e senza attenuazioni: che il primo compito dei popoli, degli Stati e dei Governi, di qualunque consociazione umana è quello di onorare Dio, sia pure attendendo al proprio specifico fine; che il primo compito - non meno - delle famiglie e degli individui, con qualunque sacrificio e con qualunque rinuncia agli umani peccaminosi ingombri è quello di onorare il. Creatore, che il primo motore d’ogni impresa, sia pure civilmente colorato, è ancora quel culto supremo, che nulla c’è di laico e di neutro come non c’è nulla che gli uomini abbiano creato da se stessi ed è tutto di Dio.
Qui però non siamo ancora in sede di conclusioni, sibbene stiamo conducendo una analisi di cause del malessere del nostro tempo.
Abbiamo indicata la causa fondamentale nell’abbandono del culto di Dio. Non a caso diciamo “causa fondamentale” perché risulta chiaro che questo abbandono priva la normalità di nostra vita di un suo elemento primo.
Tutta la natura sta vendicando il suo Creatore.
Vediamo in che cosa ha perduto tra gli uomini il Culto al Signore.
Ha perduto in prevalenza, in durata, in profondità ed in fecondità.
Ha perduto in prevalenza: fate pure le proporzioni, rilevate i volumi degli impegni e del tempo e cercate quello che rimane a Dio. Se ne ha persin vergogna. E se la democrazia deve servire per un malinteso rispetto di uomini, a fingere di non vedere neppure il Creatore, la democrazia è già segnata Non si può dire che la vita religiosa sia la parte principale della intimità famigliare, che le pratiche religiose serie e ricche di morale contenuto facciano da fondamento alla giornata di tutti gli individui. Neppure si può dire che la Domenica sia il giorno del Signore visto che mezz’ora di Messa - dato e non concesso che la si ascolti - salverà dalla colpo grave, ma non fa sì che nel “Suo” giorno il Signore sia veramente prevalente Questo senza illusioni e complimenti.
Ha perduto in durata. La durata è una questione di tempo. Ma in genere la erogazione del tempo è condizionata ad una stima, nonchè ad una prevalenza sugli istinti del piacere.
La durata è effetto di una situazione spirituale ed è causa di una situazione spirituale.
Ha perduto in fecondità. Dal culto del Signore si spandono su tutte le azioni vibrazioni pacificanti, volontà produttive, letizie serene. Dal culto del Signore scende un colore alle cose stesse. Questi effetti si compongono in modi svariati e sempre nuovi, arricchendo senza fine. Ogni cosa va a suo posto e prende le sue giuste proporzioni. Quando ogni cosa va a posto e prende le sue proporzioni nella varietà del creato e delle anime, allora non ci sono più vuoti. Ma tutto questo non accade, perchè gli uomini non danno a Dio quello che è di Dio.
Fecondità del culto del Signore era il senso della Provvidenza nella vita sociale e privata. Il nostro discorso non deve ora occuparsi dei modi coi quali vibrava quel senso della Provvidenza; ci basta sapere che quando esso vibra la vita perde le sue ombre più fosche. Esso non dispensa - per esempio - dall’usare tutti i mezzi umani per prevenire un contagio e non spinge unicamente a risolvere il problema votando una cappella a San Rocco, no! Esso però arreca la certezza di una presenza paterna e benefica, di una direzione saggia e lungimirante nelle cose della storia assai più penetrante di quella degli uomini, di una ineffabile capacità nel bene per agire e bonificare proprio perchè approvato e valutato da una eterna giustizia, di una redimibilità d’ogni peccato, d’ogni perversione e pertanto di ogni situazione o disagio. Il senso della Provvidenza nella vita sociale non è da confondersi col medesimo nell’anima dei singoli e neppure colla somma di esso nell’anima dei singoli. E’ più largo, più diffuso; più - si direbbe - immanente ed operante nei fatti stessi. Anima consuetudini, innerva abitudini, che spontaneamente appaiono, colorano ed avvivano, sembra anzi posseggano una strana forza per orientare e sostenere la coscienza e la spirituale letizia dei singoli. E quando il senso della Provvidenza non è coltivato da un qualsivoglia culto di Dio, ma da quello tipicamente costruito nel pensiero cristiano e nell’uso delle sue soprannaturali risorse, allora è gigante. La ragione è che la Rivelazione Divina ci ha dette molte cose e molte intime ragioni che conducono i fatti e ci ha fatto sapere d’una direzione di essi nel loro complesso verso la attuazione del Regno di Dio e cioè verso una salute. Così l’ultima visione, anche nei disastri della storia non è mai la morte e la estinzione, sibbene la vita e la gloria e quanto vi è di più fosco nella terrena vicenda ha sempre ragione di medicina in vista d’un bene maggiore!
I fatti hanno un respiro ed hanno una sorta di ansietà; coloro che ne sono spettatori od attori accolgono l’una e l’altra anche inconscientemente. Si regola il primo e si contiene la seconda solo se avviene agli uomini di scorgere al di sopra di essi un eterno amore.
Logicamente si vede allora come la fecondità del culto del Signore si manifesta nel togliere la solitudine al mondo. Anch’esso, senza Padre è orfano e rivela nel suo sguardo - ci si permetta di chiamarlo così - il terrore del bimbo disperso. Che maneggi con viziata noncuranza i suoi complicati giocattoli meccanici, che se li adori in taluni momenti, che se li invochi e se ne vanti, che si senta padrone nel servirsene a volontà, che abbia orchestrato tutti i rumori e tutte le opinioni per farne altrettanto rumore, non gli è sufficiente. Rimane solo. Allora batte nelle pareti per illudersi di non essere solo ascoltando echi sperduti ed artificiali. Ma è solo, mentre Uno solo gli può fare compagnia abitualmente. Non sente la campana del mattino e della sera, non ha una preghiera dell’alba e del vespro, non permette all’onda dei canti di Sion d’invadere le sue occupazioni, si barrica perchè queste cose non turbino - così pensa - lo sua libertà e pertanto rimane solo. La natura, se parla testimonia di Uno e se quell’Uno non si vuole incontrare la natura tace. Tutte le miserie della nobiltà decaduta e tutte le miseriole della debolezza gonfiata definiscono il folleggiare di questa peccaminoso solitudine.
CONCLUSIONE
Insomma la noia e la tristezza dilagano perchè manca un equilibrio e l’equilibrio alla terra lo fa solamente il Cielo. Nessuna cosa della terra ha senso senza una ragione che stia in Cielo. Nessuna esperienza ha finalità e logica se non attinge il Cielo. Nulla è completo se manca il Cielo.
Il Cielo in terra è il culto di Dio. Se questo manca, nulla tampona la terribile emorragia che prima o poi svuota ogni cosa terrena ed il mondo non si salva dall’insulso. La noia e la tristezza sono la penosa dolenza di questo male interiore; non hanno ragione in sè, sono semplicemente segni, non invocano una cura puramente sintomatica, bensì una terapia radicale. Le ragioni fondamentali dell’essere e della vita come della storia sono poche ed estremamente semplici e le formule sulle quali poggia la saggezza sono anch’esse semplici. Che l’uomo sia limitatissimo, gli è evidente; che ha bisogno - assai più dell’aria - di quanto è oltre i suoi limiti è anche più chiaro. Per ricordare all’uomo la più semplice e grande verità - aver lui bisogno del Cielo - il Creatore gli ha steso sulla testa un Cielo materiale dalle dimensioni in cui giocano i milioni e i trilioni d’anni di luce e gli ha arricchito quella volta di infiniti movimenti ove nessuno ha finora potuto cogliere un alito di vita e che paion fatti - per possenti che sono - per ricordare una verità semplice all’importante abitatore del nostro pianeta. Qui i canti diventano intelligenza, qui i movimenti diventano amore. La regale munificenza del segno si raccoglie nel dire a noi che abbiamo il Cielo ed abbiamo bisogno del Cielo.
Il più sottile dei mali del nostro secolo - la noia e la tristezza - indolenzisce le anime perchè una buona volta esse guardino in alto.
Cari Confratelli, fatevi colla stessa vostra vita “voce” perché tutti intendono questo e siate pronti a meditare per qualche anno le conseguenze di questo grande richiamo.
Dato a Genova nel Palazzo Arcivescovile, li 21 Dicem. 1952, festa di S. Tomaso, apostolo
fonte:http://www.cardinalsiri.it/