sábado, 19 de junho de 2010

Martin Mosebach afferma che "nell'antichità l'interruzione di una tradizione da parte del sovrano era definita come un atto di tirannia. In questo senso potremmo dire che anche il modernizzatore e progressista Paolo VI sia stato un tiranno della Chiesa". Questa valutazione scabra e durissima su Paolo VI non nasce soltanto dalla consapevolezza che la riforma liturgica fu proposta come una negazione del passato. Essa scaturisce dall'analisi degli effetti che quella riforma ebbe e continua ad avere sui "piccoli", sui fedeli, sulle generazioni cristiane che di essa sono state imbevute.


TRADIZIONE E RISPETTO DEI PADRI









di Francesco Colafemmina

Le riflessioni di Martin Mosebach nel suo prezioso volume "L'eresia dell'informe" ci introducono ad un aspetto completamente obliterato della riforma liturgica seguita al Concilio.
Mi riferisco all'idea che l'interruzione della tradizione o il suo tradimento, allorchè per "tradizione" intendiamo la trasmissione ereditaria di un "bene", siano da considerarsi atti "tirannici".
La "trasmissione" di generazione in generazione riposa infatti sul riconoscimento di un valore supremo al "rispetto per il padre". Da questo rispetto discende automaticamente la sacralità della trasmissione. Trasmettere l'eredità dei padri non significa comunque non arricchirla o incrementarla, ma di certo questo passaggio di mano in mano implica il reverenziale timore della trasformazione e della negazione di quanto è trasmesso. Rottura con i padri, negazione del loro operato, rifiuto del loro "mondo", damnatio memoriae delle loro espressioni: sono tutti sinonimi della ribellione ai padri e della hybris dei figli!
Gli antichi Greci misuravano la maturità e la sanità di una società in base al rispetto che veniva tributato ai padri, agli antenati ed agli anziani in genere. Se infatti una società era sana e solida, formata attraverso le virtù (aretai), valorosa e prospettata verso la gloria, ciò era certamente da addebitarsi al rispetto (sebasmos) che i figli (la generazione vivente) aveva avuto nei riguardi dei padri (coloro che avevano posto le premesse per lo splendore attuale). Se un figlio nega, rifiuta o distrugge l'eredità del padre egli nega in qualche modo se stesso, nega la sua formazione, nega il suo status, calpesta ciò che ha ricevuto e lo fa con disprezzo ed alterigia.
Questa "tracotanza" era per gli antichi sinonimo di sacrilegio, di violazione dei patti fra gli dei e gli uomini, una palese deviazione dal cosmos per entrare nel caos. L'esempio classico del ritorno del cosmos nel caos aperto dal destino ereditario dell'uomo è quello dell'Edipo a Colono di Sofocle, dove il rispetto dei padri è esaltato e rappresentato come valore primario della società.
Allo stesso modo la riforma liturgica e le innovazioni conciliari si sono sviluppate quali tentativi non di "accrescere" l'eredità del passato, bensì di "depurarla", svilirla, cancellarla, distruggerla. E ciò è accaduto spiritualmente nella liturgia e materialmente nell'arte e nell'architettura sacra. L'iconoclastia postconciliare di cui parla Mosebach, rappresenta un unicum nella storia dell'occidente (perchè tale iconoclastia è nata in occidente), proprio per il suo configurarsi non come l'imposizione di una nuova espressione del culto (come fu in epoca bizantina), bensì quale palese ed espressa "ribellione" nei riguardi dell'eredità dei "padri".
Mosebach afferma che "nell'antichità l'interruzione di una tradizione da parte del sovrano era definita come un atto di tirannia. In questo senso potremmo dire che anche il modernizzatore e progressista Paolo VI sia stato un tiranno della Chiesa". Questa valutazione scabra e durissima su Paolo VI non nasce soltanto dalla consapevolezza che la riforma liturgica fu proposta come una negazione del passato. Essa scaturisce dall'analisi degli effetti che quella riforma ebbe e continua ad avere sui "piccoli", sui fedeli, sulle generazioni cristiane che di essa sono state imbevute.

L'uomo ha sempre cercato naturalmente di aderire al suo passato, alle generazioni, ai padri, ai nonni, agli antenati, perchè essi rappresentano la sua attualità. Senza la discendenza il nostro essere uomini sarebbe privo di un significato importante. Ecco perchè anche quegli uomini che per i più tristi casi della vita crescono privi di genitori o nella assoluta ignoranza della loro stirpe, un giorno scoprono di avere il febbrile bisogno di recuperare il proprio passato. Sappiamo tutti infatti che nelle viscere di chi ci generò è racchiuso anche il senso della nostra vita. E se questa nostra esistenza odierna è per noi un peso o una ricchezza, in ogni caso nel rapporto con il passato inteso non come il luogo del nulla, ma il luogo da cui proveniamo, possiamo trovare il senso sia del peso che della ricchezza del presente.
Il Tradizionalismo inteso come passatismo, come ambizione ad un ritorno al passato, è un semplice gioco logico inventato dai detrattori del "sebasmos" (rispetto) per i padri e la loro eredità. In una realtà ecclesiale che combatte il suo passato o tenta di rielaborarlo proditoriamente alla luce del presente, è ben scontato che i rispettosi dei padri possano arroccarsi nella loro univoca venerazione. Ma sono poi davvero così disprezzabili questi amanti della tradizione? Qual è il loro peccato di fondo? E' un peccato ecclesiale? O è forse un peccato umano o umanistico? Propendo per questa seconda spiegazione. Il peccato dei difensori e degli innamorati della tradizione, di coloro che sono "veneratori dei padri" è che non hanno ancora sposato l'idea di un uomo artefice autonomo (autolegislatore) del proprio destino e della propria realtà. Essi sono ancora legati ad una dimensione ecclesiale autentica, dove per Chiesa non si intende solo l'attuale Corpo Mistico di Cristo, ma l'estensione di questo Corpo nel passato da cui procede, nel passato a partire dal quale ha preceduto gli uomini in Galilea...
E la Chiesa amata e difesa dagli amanti della tradizione è Chiesa composta di "semplici", non mai decisa o strattonata dagli intellettuali autonomi, bensì trasmessa, estesa nel tempo e nello spazio dai tanti fedeli guidati dalla ricerca del Signore. I gesti iterati dei semplici sono stati un giorno vietati, proibiti, osteggiati per sempre e ovunque nel mondo. Ed ancor oggi, nonostante si cerchi di legare la tradizione all'innovazione del Concilio e della nuova liturgia, resta quell'hybris che è netta ed inestinta cesura. Come possono gli uomini d'oggi con un salto di due generazioni raccordarsi a tutte le innumerevoli generazioni precedenti? Dovremmo scavalcare quest'atto di indipendente vanità dell'uomo che ha calpestato il rito romano, che è saltato sugli altari e ne ha distrutto la bellezza, che si è arrampicato sulle chiese e le ha ridotte a vuoti cantieri, che si è introdotto nel cuore dell'uomo e vi ha scacciato la presenza Reale del Signore? Come e quanto dovremmo tornare indietro? Dovremmo anche noi rinnegare le due generazioni che ci hanno preceduto, smascherarne le inconsistenti utopie e condannarci all'orphanage di una umanità tradita?
E' difficile rispondere a questo quesito, ma nondimeno è opportuno porselo. Credo, infatti, che sia questo il centro sia della fioritura "tradizionale" di questi ultimi anni, sia dell'ostilità diffusa e progressista, ma più spesso inconsapevole e meccanica. Quest'ultima è diffusa eredità di chi non esita ad accettare supinamente la "neotradizione" degli iconoclasti. La riforma postconciliare ha anch'essa bisogno di instaurare una "neotradizione" per vivere, e l'ignoranza di ciò che la precede o la semplice assuefazione alle nuove consuetudini è il vero bacino di coltura del progressivismo reazionario (con un palmare capovolgimento di ruoli i veri "rivoluzionari" sono oggi i tradizionalisti). Ma mentre il progressivismo realmente bigotto e conformista è promosso da reduci delle utopie postocnciliari e dai loro zelanti discepoli, la tradizione invece è oggi difesa e promossa da uomini relativamente giovani, spesso semplicemente da ragazzi. Sono loro gli eredi di generazioni che hanno vissuto nell'utopia e che oggi, dopo il crollo di quelle fantasie di libertà e progresso, si confrontano con la ricerca di una appartenenza. Così questi giovani, tra i quali ci sono misermente anch'io, scoprono in quel passato negato, nei gesti ormai dimenticati dei nonni, il senso di quel "tradere" che dà sostanza e verità a questo presente plastificato ed opaco.

Concludo citando, a mò di riassunto di quanto finora espresso, un illuminante passaggio del volume di Mosebach: "La mancanza di riguardo con cui qualcosa che è venerato, è che ora non lo deve essere più, è profanato, eliminato, soppresso, gettato via, liquefatto, svenduto, è volgare. Alle numerose ondate di distruzione che nella storia del nostro Paese si sono abbattute sui nostri santuari - la riforma, la secolarizzazione con le sue centinaia di migliaia di profanazioni - ne è seguita una più recente assolutamente degna dei suoi predecessori per forza distruttiva: si dovrebbe un giorno compilare una lista di quanti altari in Germania a partire dal Concilio sono stati distrutti. Le nostre chiese dispendiosamente restaurate e costosamente sistemate secondo l'architettura d'interni, di volta in volta alla moda, assomigliano spesso a scheletri preparati con accuratezza, che vengono predisposti in modo eccellente per un futuro da museo. Nessuno, che creda realmente alla forza della grazia e della preghiera, oserebbe disprezzare e distruggere ciò che è stato consacrato attraverso l'uso della preghiera, e ciò che risulta per così dire caricato elettricamente da molte grazie."(pag.59).
h
Martin Mosebach, Eresia dell'Informe, Cantagalli, 2009.
FONTE:FIDES ET FORMA