“Concilio  Ecumenico Vaticano II          UN DISCORSO  DA FARE”  |      ||
| TORNA AL CATALOGO |       RECENSIONE DEL LIBRO DI MONS.  BRUNERO      GHERARDINI da SiSiNoNo, giugno 2009  |      |
|                        Monsignor Brunero Gherardini,  già docente di ecclesiologia        alla Pontificia Università Lateranense, ha scritto un libro dal  titolo che        qui sopra abbiamo riportato (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un         discorso da fare), e lo ha indirizzato al Papa, con la  supplica di        chiarire in maniera definitiva gli interrogativi che il Vaticano  II pone        da oltre quarant’anni alla coscienza cattolica.               Mons. Gherardini, che, sin dal  1962-65, ha seguito l’iter        conciliare (essendo stato ordinato sacerdote nel 1948, essendosi        laureatosi in teologia nel 1952 e specializzatosi a Tubinga nel  1954-55),        scrive: «Confesso […] che mai ho cessato di pormi il problema se        effettivamente la Tradizione della Chiesa sia stata in tutto e  per        tutto salvaguardata dall’ultimo Concilio e se, quindi,  l’ermeneutica       della continuità evolutiva sia un suo innegabile pregio e  si possa        dargliene atto» (op. cit. Frigento, Casa Mariana Editrice,  2009, p.        87; il neretto e il corsivo sono nel testo). Egli afferma        giustamente che la continuità tra Vaticano II e Tradizione  cattolica        finora è stata asserita, ma non dimostrataª:        «non s’andò oltre una declamazione puramente teorica» (p. 14)  della        suddetta continuità e deplora una “colossale tautologia”, un  «errore di        metodo» che “risponde col Vaticano II, e solo con esso, ai quesiti  insorti        a seguito del Vaticano II» (p. 21). Chiede, perciò, che finalmente  si        dimostri ciò che si afferma (ovvero l’«ermeneutica della  continuità»),        dacché i dubbi permangono e si impone la «necessità di una  riflessione        storico-critica sui testi conciliari, che ne ricerchi i  collegamenti –        qualora effettivamente vi siano – con la continuità della  Tradizione        cattolica. Reputo questo uno dei più urgenti doveri del  Magistero        ecclesiastico» (p. 17; il neretto è nel testo).               D’altronde anche Paolo VI nel  1969 parlò di “fumo di        satana” penetrato nella Chiesa e di “auto-demolizione” della  Chiesa di Dio        e il 29 giugno 1972 disse: “si credeva che dopo il Concilio  sarebbe venuta        una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece  una        giornata di nuvole, di tempesta, di buio”. Successivamente  Giovanni Paolo        II il 6 febbraio 1981 parlò di “stato di apostasia silenziosa” del         cattolicesimo contemporaneo e l’ allora card. Ratzinger prima  parlò di        “auto-distruzione, di auto-critica, di noia e scoraggiamento, di        progressiva decadenza, di vie sbagliate che hanno condotto a  conseguenze        negative” (Rapporto sulla Fede) e poi nel 2005 (Via  Crucis),        poco prima di essere eletto Papa, denunciò “sporcizia nella  Chiesa, la        quale sembra una barca che sta per affondare e che fa acqua da  tutte le        parti”.              Il cuore del problema              Quanto alla responsabilità di  tanta confusione constatata        da tre Papi, il Gherardini è dell’opinione che in generale si sia  trattato        soprattutto di «leggerezza […], ottimismo irriflessivo e  infondato, […]        fiducia illimitata nell’uomo […]. Pertanto, la “colpa” dei Padri        conciliari, almeno nella loro stragrande maggioranza, non fu  quella        formale “della piena avvertenza e del deliberato consenso”  […], ma        quella materiale della non-avvertenza, della leggerezza, di  un        ottimismo superficiale ed esagerato […]. Forse, almeno in alcuni  casi […],        ci fu pure negligenza e mancanza di vigilanza» (p. 19) come anche  una        certa «scapigliatura» e «superficialità» (p. 33).              L’Autore arriva quindi al  cuore del problema, ossia: il        Vaticano II è «un Concilio rigorosamente dogmatico», e  quindi        vincolante la Chiesa intera, oppure è un Concilio “pastorale”,       che “esclude in tal modo ogni intento definitorio»? (p. 23).  Se esso        risulta solamente pastorale, chi «l’equipara al Tridentino e allo  stesso        Vaticano I, accreditandogli una forza normativa e vincolante che  di per sé        non possiede, compie un illecito ed in ultima analisi non rispetta  il        Concilio» perché, “quando… un Concilio presenta se stesso […]  sotto la        categoria della pastoralità autoqualificandosi come pastorale        […], non può pretendere la qualifica di dogmatico né altri  possono        conferirgliela” (i corsivi sono nel testo). Il Nostro, però,  riconosce che        un’ opera di «revisione e rivalutazione» dei testi del Concilio  «potrebbe        essere realizzata soltanto da un bel manipolo di specialisti, […]  decine e        decine di autori altamente specializzati» (p. 24). Si tratta,  infatti, di        «verificare se ed in qual misura il Vaticano II si colleghi,        effettivamente e non solo attraverso le sue dichiarazioni [di  fedeltà        alla Tradizione] con le dottrine esposte o conciliarmene, o dai  singoli        Pontefici» (p. 57 ; corsivo nostro).               Mons. Gherardini afferma che  nel suo libro egli stesso si        avvicina al problema senza intenzioni o pretese «di giudizi  apodittici e        di rimedi ultimativi […]. L’unica parola che può davvero  collocar        tutto nelle sue giuste dimensioni […] è quella del Papa,  specie se        affidata ad uno dei suoi più autorevoli documenti” e conclude:  “Umilmente        ma intensamente chiedo dunque ed imploro questo documento» (p.  25).                      Valore e limiti del  Vaticano II              Per stabilire il valore  teologico o magisteriale        dell’ultimo Concilio, l’Autore parte dalla sua natura e dai suoi  fini. Per        sua natura il Vaticano II è un vero e proprio «Concilio ecumenico»  (p.        48), perché composto da tutto l’episcopato e presieduto da due  Papi,        validamente eletti: Giovanni XXIII e Paolo VI. Perciò non si può  parlare        di “non magistero”, il che equivarrebbe a negare la legittimità  dei Papi        che lo hanno presieduto e comporterebbe un avventato giudizio  sulla «non        autenticità dell’ ultimo Concilio e quindi sulla sua mancanza di  autorità        ecclesiale» (p. 79).               Questa – “Concilio ecumenico” –  è, però, la definizione        generica Per giungere a quella specifica, occorre scandagliare le  sue        finalità «non definitorie, non dogmatiche, non dogmaticamente  vincolanti,        ma pastorali» (p. 47), che differenziano «il Vaticano II da altri  Concili        ed in particolar modo dal Tridentino e dal Vaticano I» (ivi). Ma  cosa        significa esattamente “pastorale”? Significa un atteggiamento  pratico        supportato da una base dottrinale, la quale, però, non lo rende        “dogmatico” o definitorio in senso stretto.              Lo scopo principale del  Vaticano II fu “pastorale” o        pratico, anche se, per agire e volere, occorre prima essere e  conoscere (“agere        sequitur esse” e “nihil volitum nisi praecognitum”),        analogicamente alla scienza pratica che è un “conoscere per agire        rettamente” e distintamente dalla scienza speculativa che è un  “conoscere        per sapere”.               Il Vaticano II voleva far  conoscere il cristianesimo        all’uomo contemporaneo, utilizzando un procedimento a lui più  familiare,        ossia pratico, “pastorale”, vale a dire «tradurre la dottrina in  termini        operativi» (p. 64) e perciò non volle essere speculativo o  “dogmatico”        (cfr. p. 63). È illecito ciò? No. Infatti «un Concilio non parla  alle        nuvole […]. Gli interessano gli uomini, questi uomini, il loro  consorzio,        la loro quotidianità, la loro salvezza eterna. […]. In pari tempo,  però,        era doveroso evitare l’ errore di incapsularsi nell’indagine  sociologica        […]. Anche se non si discute l’opportunità di un tale approccio        conoscitivo [parlare pastoralmente di Cristo all’uomo  contemporaneo],        discutibile e sconsigliabile avrebbe dovuto apparire l’ affidarsi a         criteri valutativi che […] sapevano d’immanentismo, d’ idealismo,  di        positivismo, d’ esistenzialismo e perfino di materialismo» (p.  69).        Infatti, «nessuno potrebbe sostenere che qualunque riformulazione  [del        dogma] è già di per sé un errore. L’aveva già proposta […]  Vincenzo di        Lerino, aggiungendo però “eodem sensu eademque sententia”,  con il        medesimo contenuto e la stessa confessione» (p. 89); tuttavia «che  il        postconcilio sia andato per la sua strada a ruota libera,  appellandosi        formalmente al Concilio ma, di fatto, rompendo gli argini entro i  quali il        Concilio stesso aveva almeno tentato d’inglobare il suo  corso,        sembra difficilmente contestabile» (p. 89).               Nel Vaticano II, dunque, «non  [vi è] l’assenza del profilo        dottrinale, ma [vi è] l’assenza dell’intento definitorio e, di        conseguenza, di nuove formulazioni dogmatiche. […]. All’ atto  pratico,        però, il sopravvento è sempre della pastorale. […] Su una sola  conclusione        non si sbaglia: si volle un Concilio pastorale. E solamente         pastorale» (pp. 64-65; i corsivi sono nel testo). Il Gherardini  asserisce:        «Dico subito che neanche una sola definizione dogmatica rientrò  negli        intenti della Lumen Gentium o degli altri documenti del  Vaticano        II. Il quale – è bene non dimenticarlo – non avrebbe nemmeno  potuto        proporla, avendo rifiutato di mettersi sulla stessa linea  tracciata dagli        altri Concili» (pp. 49-50).               All’obiezione che le  Costituzioni Lumen Gentium e        Dei Verbum del Vaticano II sono qualificate come “dogmatiche”  l’Autore        risponde che esse «non ricorrono ai consueti canoni di condanna,        rinunciando così a qualificare dogmaticamente le rispettive  dottrine.        Perché si parla allora di “Costituzioni dogmatiche”? Evidentemente  perché        esse recepirono dogmi precedentemente definiti» (p. 50). Inoltre  Giovanni        XXIII l’11 ottobre 1962 disse esplicitamente che il Concilio «era  stato        indetto non per condannare errori e formulare nuovi dogmi, ma per        manifestare la verità di Cristo al mondo contemporaneo. […] È  pertanto        lecito riconoscere al Vaticano II un’ indole dogmatica solamente  là dove        esso ripropone come verità di Fede dogmi definiti in precedenti  Concili.        Le dottrine, invece, che gli sono proprie non potranno  assolutamente        considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive della  ineludibile        formalità definitoria e quindi della relativa “voluntas  definiendi”»        (p. 51).              Concilio e post-concilio              All’indebolimento o  addirittura al superamento delle        posizioni dottrinali, disciplinari, liturgiche e pastorali della  Chiesa        preconciliare «il Vaticano II non prestò mai il suo aiuto diretto.         Ci pensò il postconcilio» (p. 74). Tuttavia il Concilio dette un “aiuto         indiretto” (ivi) a tale ribaltamento e “gli interessati  all’opera d’        indebolimento e superamento prima accennata fecero di codesto  aiuto        indiretto un “canone ermeneutico” (ivi), chiamato “spirito del         Concilio” (ivi). Ora, osserva il Gherardini, se “formalmente         parlando”, lo spirito conciliare non poteva assurgere a criterio        interpretativo del Vaticano II, “le premesse materiali  c’erano” (p.        75). I princìpi dello spirito del Concilio, «anche se formalmente  staccati        dal dettato conciliare […], provenivano dai suoi più o meno occulti         patrocinatori, erano da questi innestati sul ceppo  conciliare ed        introdotti a pieno titolo tra gli strumenti interpretativi di  esso» (pp.        75-76; corsivi nostri). Onde «chi non ne traesse le dovute  conseguenze        innovative sino alla creazione di una religione nuova […],  dimostrerebbe        di non sapersi muovere a dovere nell’oscuro e fitto dedalo  delle        antinomie conciliari e soprattutto postconciliari. In atto fu – e  tuttora        va per la sua strada – un’ermeneutica di rottura» (p. 76).               L’Autore dà a tale  interpretazione del Vaticano II la        qualifica di “vero modernismo” (p. 77). Onde egli chiede al Papa  di        sostituire all’ ermeneutica della rottura o della continuità  asserita ma        tuttora non dimostrata, un’ermeneutica teologica, «che determini  il        significato, il valore, l’originalità, la vitalità e le finalità  del        Vaticano II alla luce dei princìpi poco sopra indicati» (p. 84)  che sono        quelli «teologici» (p. 81), onde «valutare alla luce [di essi], il         significato […], la portata ecclesiale dell’ultimo Concilio»  (ivi). Un’        ermeneutica veramente teologica deve rispondere alla domanda  decisiva: «il        Vaticano II s’iscrive o no nella Tradizione ininterrotta della  Chiesa, dai        suoi inizi sino ad oggi?» (p. 84).              L’«ermeneutica della  continuità e non della rottura»              Per quanto riguarda la  “ermeneutica della continuità e non        della rottura come sola ermeneutica da adottare” per il Vaticano  II        (Benedetto XVI, 22 dic. 2005, Discorso alla Curia romana), il  Gherardini        scrive: «Non nascondo che l’affermazione, pur importante, non mi  parve né        originale né del tutto soddisfacente» (p. 87). Poiché il problema  reale da        affrontare, il “discorso da fare” è «quello di dimostrare che il  Concilio        non si mise fuori del solco della Tradizione» (p. 87). È a questo  punto        che egli aggiunge: «appena terminato il Vaticano II […] parlai e  poi        scrissi di “continuità evolutiva” […] per trovare mediante questa  formula,        la possibilità di agganciare il Vaticano II […] alla precedente        tradizione. Confesso però che mai ho cessato di pormi il problema  se        effettivamente la Tradizione della Chiesa sia stata in tutto e  per        tutto salvaguardata dall’ultimo Concilio        e se, quindi, l’ermeneutica della        continuità evolutiva sia un suo innegabile pregio e si possa  dargliene        atto» (ivi).                 Il miglior consiglio è di  fare bene quanto possiamo e          poi non aspettarci la mercede dal mondo, ma da Dio solo.          S.  Giovanni Bosco        Quanto ai grandi teologi  “nuovi” e “nuovissimi” che        parteciparono come “periti” al Concilio, il Nostro ammette che se  Rahner,        Schillebeeckx, Küng, Boff colpirono la Tradizione «con fendenti  diretti»        (p. 90), altri «celebrati pezzi da novanta, come von Balthasar, De  Lubac,        Daniélou, Chenu e Congar» (ivi), colpivano lo stesso bersaglio con         fendenti «indiretti» (ivi). Effettivamente «qualche cosa di nuovo,  dal        1965 in poi [il postconcilio], ma non senza radici nel periodo  1962-1965        [il Concilio stesso], era nato: qualcosa che sistematicamente  rompeva i        ponti con la linfa vitale della Tradizione […]. Fu l’humus  del        Vaticano II a far cestire il “nuovo” e fu il suo “placet” a         presentarlo come una parola d’ordine» (p. 99; corsivo nostro). Non  è solo        questione di postconcilio, dunque, ma del Concilio stesso, del suo         terreno, del suo ambiente, del suo assenso alla rottura  sistematica con la        Tradizione.               Il Gherardini vuole essere  chiaro e ribadisce: «anche se        fosse dimostrabile l’assenza d’una sua [del Concilio] diretta        responsabilità, è comunque certo che una sua responsabilità  indiretta ci        fu e che, in conseguenza di essa, il dibattito teologico del  postconcilio,        si lasciò la tradizione dietro le spalle e la sottopose ad  interpretazioni        di comodo» (p. 103).               Nel corso del libro (pp.  103-242) l’Autore affronta le        questioni della divina Tradizione, della Collegialità,  della       Libertà religiosa, dell’ Ecumenismo e della Riforma         liturgica, per mostrare le contraddizioni almeno materiali con  la        dottrina cattolica comunemente insegnata sino al 1965. Mostra che        Dignitatis humanae (Dichiarazione sulla Libertà religiosa) e Nostra         aetate (Dichiarazione sul dialogo con le religioni a-cristiane  e        specialmente con il giudaismo) sono state concepite assieme,  soprattutto        ad opera di mons. E. De Smedt, il 19 nov. 1963 e che perciò un  vincolo        “stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa” come se la  Parola        Divina “non avesse stabilito la dipendenza della libertà dalla  verità” (p.        189).              Epilogo e supplica al  Santo Padre              Il problema di fondo, che il  Papa solo può risolvere e può        risolvere anche da solo, è quello di dimostrare se vi sia  continuità o        discontinuità tra Vaticano II e i venti Concili ecumenici che lo        precedettero ovvero se il postconcilio ha concorso o no ad  allontanare il        Vaticano II dalla Tradizione (p. 243). Occorre provare – e non  basta        limitarsi ad asserirlo – che vi è continuità omogeneamente  evolutiva (“eodem        sensu eademque sententia”), tra Vaticano II e gli altri venti  Concili        (p. 244). Mons. Gherardini scrive: «È sotto gli occhi di tutti […]  il        radicale cambiamento di mentalità che, iniziatosi col modernismo  nei primi        anni del secolo scorso, trionfò nelle anticamere del Vaticano II,        nell’aula conciliare e soprattutto nel disastroso decorso del        postconcilio. Chi lo negasse […], dimostrerebbe di vivere tra le  nuvole»        (p. 246). Segue la Supplica al Santo Padre in cui  l’Autore        domanda «chiarezza, rispondendo autorevolmente alla domanda sulla        continuità di esso [Concilio] – non declamata, bensì dimostrata –  con gli        altri Concili […]. Una scientifica analisi dei singoli documenti,  del loro        insieme e d’ogni loro argomento, delle loro fonti immediate e  remote […].        Sarà necessario dimostrare – al di là d’ogni declamatoria  asseverazione –        che la continuità è reale, e tale si manifesta, solo nell’identità         dogmatica di fondo. Qualora questa, o in tutto o in  parte, non        risultasse scientificamente provata, sarebbe necessario dirlo con  serenità        e franchezza in risposta all’esigenza di chiarezza sentita ed  attesa da        quasi mezzo secolo […]. Si potrà in tal modo sapere se, in che  senso e        fino a che punto il Vaticano II, e soprattutto il  postconcilio,        possano interpretarsi nella linea di un’ indiscutibile continuità  sia pur        [omogeneamente] evolutiva, o se invece le sian estranei se non  anche d’        ostacolo» (p. 257; neretti nel testo).              * * *               Il libro è accompagnato da  due lettere introduttive e di        sostegno. La prima è del Vescovo di Albenga, mons. Mario Oliveri,  che si        unisce “toto corde” (p. 8) alla supplica del Gherardini ed  esprime        la sua ferma convinzione che «se da un’ ermeneutica teologica  cattolica        emergesse che taluni passi […], non dicono soltanto “nove”        [nuovamente, quanto al modo], ma anche “nova” [cose nuove,  quanto        alla sostanza], rispetto alla perenne Tradizione della Chiesa, non  si        sarebbe più di fronte ad uno sviluppo omogeneo del Magistero: lì  si        avrebbe un insegnamento non irreformabile, certamente non         infallibile» (p. 7). L’altra lettera è dell’Arcivescovo,  Segretario        della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei  Sacramenti,        mons. Albert Malcom Ranjith.         Onde possiamo dire che due membri della Chiesa docente, assieme al  teologo        Brunero Gherardini, chiedono al Papa di dirimere  “autoritativamente” la        questione che il Concilio pone da quaranta anni alla coscienza dei         cattolici.               ● Il libro può essere  richiesto a: Casa Mariana Editrice.        Via Piano della Croce. 83040-Frigento (AV). Tel./fax: 0825. 444.  415.        Mail:                cm.editrice@immacolata.ws              Censor       da  SiSiNoNo, giugno 2009Link a questa pagina : http://www.doncurzionitoglia.com/sisinono_recensione_gherardini_vatII.htm                   ª           Tra i rari studi seri sulla asserita continuità tra Concilio e          Tradizione l’Autore cita agostino           Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II.  Contrappunto per          la sua storia, (Libreria Editrice Vaticana, 2005), che  avversa la          “interpretazione della rottura” della scuola di Alberigo e  Melloni. Tra          i libri, che, invece, denunziano la non continuità sono citati         Cornelio Fabro, La           svolta antropologica di Karl Rahner e L’avventura della  teologia          progressista (Milano, Rusconi, 1974);         Giuseppe Siri,          Getsemani (Roma, Comunità della Santissima Vergine Maria,  1980);         Romano Amerio, Iota           unum, [1985] (rist. Verona, Fede e Cultura, 2009);         Johannes Dormann, La           teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, [1994-98]  (tr.          it., Albano Laziale, Icthys, 4 voll., 1999-2003).  http://www.doncurzionitoglia.com/sisinono_recensione_gherardini_vatII.htm | 

- E senti o espírito 
inundado por um mistério de luz que é Deus   e N´Ele vi e ouvi -A ponta da lança como chama que se desprende, toca o eixo da terra, – Ela estremece: montanhas, cidades, vilas e aldeias com os seus moradores são sepultados. - O mar, os rios e as nuvens saem dos seus limites, transbordam, inundam e arrastam consigo num redemoinho, moradias e gente em número que não se pode contar , é a purificação do mundo pelo pecado em que se mergulha. - O ódio, a ambição provocam a guerra destruidora!  - Depois senti no palpitar acelerado do coração e no meu espírito o eco duma voz suave que dizia: – No tempo, uma só Fé, um só Batismo, uma só Igreja, Santa, Católica, Apostólica: - Na eternidade, o Céu! (escreve a irmã Lúcia a 3  de janeiro de 1944,  em "O Meu Caminho," I, p. 158 – 160 – Carmelo de Coimbra)