sexta-feira, 9 de julho de 2010

“Concilio Ecumenico Vaticano II UN DISCORSO DA FARE” TORNA AL CATALOGO RECENSIONE DEL LIBRO DI MONS. BRUNERO GHERARDINI :L’Autore arriva quindi al cuore del problema, ossia: il Vaticano II è «un Concilio rigorosamente dogmatico», e quindi vincolante la Chiesa intera, oppure è un Concilio “pastorale”, che “esclude in tal modo ogni intento definitorio»? (p. 23). Se esso risulta solamente pastorale, chi «l’equipara al Tridentino e allo stesso Vaticano I, accreditandogli una forza normativa e vincolante che di per sé non possiede, compie un illecito ed in ultima analisi non rispetta il Concilio» perché, “quando… un Concilio presenta se stesso […] sotto la categoria della pastoralità autoqualificandosi come pastorale […], non può pretendere la qualifica di dogmatico né altri possono conferirgliela”

“Concilio Ecumenico Vaticano II

UN DISCORSO DA FARE”

TORNA AL CATALOGO
RECENSIONE DEL LIBRO DI MONS. BRUNERO GHERARDINI
da SiSiNoNo, giugno 2009




 
Monsignor Brunero Gherardini, già docente di ecclesiologia alla Pontificia Università Lateranense, ha scritto un libro dal titolo che qui sopra abbiamo riportato (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare), e lo ha indirizzato al Papa, con la supplica di chiarire in maniera definitiva gli interrogativi che il Vaticano II pone da oltre quarant’anni alla coscienza cattolica.
Mons. Gherardini, che, sin dal 1962-65, ha seguito l’iter conciliare (essendo stato ordinato sacerdote nel 1948, essendosi laureatosi in teologia nel 1952 e specializzatosi a Tubinga nel 1954-55), scrive: «Confesso […] che mai ho cessato di pormi il problema se effettivamente la Tradizione della Chiesa sia stata in tutto e per tutto salvaguardata dall’ultimo Concilio e se, quindi, l’ermeneutica della continuità evolutiva sia un suo innegabile pregio e si possa dargliene atto» (op. cit. Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009, p. 87; il neretto e il corsivo sono nel testo). Egli afferma giustamente che la continuità tra Vaticano II e Tradizione cattolica finora è stata asserita, ma non dimostrataª: «non s’andò oltre una declamazione puramente teorica» (p. 14) della suddetta continuità e deplora una “colossale tautologia”, un «errore di metodo» che “risponde col Vaticano II, e solo con esso, ai quesiti insorti a seguito del Vaticano II» (p. 21). Chiede, perciò, che finalmente si dimostri ciò che si afferma (ovvero l’«ermeneutica della continuità»), dacché i dubbi permangono e si impone la «necessità di una riflessione storico-critica sui testi conciliari, che ne ricerchi i collegamenti – qualora effettivamente vi siano – con la continuità della Tradizione cattolica. Reputo questo uno dei più urgenti doveri del Magistero ecclesiastico» (p. 17; il neretto è nel testo).
D’altronde anche Paolo VI nel 1969 parlò di “fumo di satana” penetrato nella Chiesa e di “auto-demolizione” della Chiesa di Dio e il 29 giugno 1972 disse: “si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”. Successivamente Giovanni Paolo II il 6 febbraio 1981 parlò di “stato di apostasia silenziosa” del cattolicesimo contemporaneo e l’ allora card. Ratzinger prima parlò di “auto-distruzione, di auto-critica, di noia e scoraggiamento, di progressiva decadenza, di vie sbagliate che hanno condotto a conseguenze negative” (Rapporto sulla Fede) e poi nel 2005 (Via Crucis), poco prima di essere eletto Papa, denunciò “sporcizia nella Chiesa, la quale sembra una barca che sta per affondare e che fa acqua da tutte le parti”.
 
Il cuore del problema
Quanto alla responsabilità di tanta confusione constatata da tre Papi, il Gherardini è dell’opinione che in generale si sia trattato soprattutto di «leggerezza […], ottimismo irriflessivo e infondato, […] fiducia illimitata nell’uomo […]. Pertanto, la “colpa” dei Padri conciliari, almeno nella loro stragrande maggioranza, non fu quella formale “della piena avvertenza e del deliberato consenso” […], ma quella materiale della non-avvertenza, della leggerezza, di un ottimismo superficiale ed esagerato […]. Forse, almeno in alcuni casi […], ci fu pure negligenza e mancanza di vigilanza» (p. 19) come anche una certa «scapigliatura» e «superficialità» (p. 33).
L’Autore arriva quindi al cuore del problema, ossia: il Vaticano II è «un Concilio rigorosamente dogmatico», e quindi vincolante la Chiesa intera, oppure è un Concilio “pastorale, che “esclude in tal modo ogni intento definitorio»? (p. 23). Se esso risulta solamente pastorale, chi «l’equipara al Tridentino e allo stesso Vaticano I, accreditandogli una forza normativa e vincolante che di per sé non possiede, compie un illecito ed in ultima analisi non rispetta il Concilio» perché, “quando… un Concilio presenta se stesso […] sotto la categoria della pastoralità autoqualificandosi come pastorale […], non può pretendere la qualifica di dogmatico né altri possono conferirgliela” (i corsivi sono nel testo). Il Nostro, però, riconosce che un’ opera di «revisione e rivalutazione» dei testi del Concilio «potrebbe essere realizzata soltanto da un bel manipolo di specialisti, […] decine e decine di autori altamente specializzati» (p. 24). Si tratta, infatti, di «verificare se ed in qual misura il Vaticano II si colleghi, effettivamente e non solo attraverso le sue dichiarazioni [di fedeltà alla Tradizione] con le dottrine esposte o conciliarmene, o dai singoli Pontefici» (p. 57 ; corsivo nostro).
Mons. Gherardini afferma che nel suo libro egli stesso si avvicina al problema senza intenzioni o pretese «di giudizi apodittici e di rimedi ultimativi […]. L’unica parola che può davvero collocar tutto nelle sue giuste dimensioni […] è quella del Papa, specie se affidata ad uno dei suoi più autorevoli documenti” e conclude: “Umilmente ma intensamente chiedo dunque ed imploro questo documento» (p. 25).
 
Valore e limiti del Vaticano II
Per stabilire il valore teologico o magisteriale dell’ultimo Concilio, l’Autore parte dalla sua natura e dai suoi fini. Per sua natura il Vaticano II è un vero e proprio «Concilio ecumenico» (p. 48), perché composto da tutto l’episcopato e presieduto da due Papi, validamente eletti: Giovanni XXIII e Paolo VI. Perciò non si può parlare di “non magistero”, il che equivarrebbe a negare la legittimità dei Papi che lo hanno presieduto e comporterebbe un avventato giudizio sulla «non autenticità dell’ ultimo Concilio e quindi sulla sua mancanza di autorità ecclesiale» (p. 79).
Questa – “Concilio ecumenico” – è, però, la definizione generica Per giungere a quella specifica, occorre scandagliare le sue finalità «non definitorie, non dogmatiche, non dogmaticamente vincolanti, ma pastorali» (p. 47), che differenziano «il Vaticano II da altri Concili ed in particolar modo dal Tridentino e dal Vaticano I» (ivi). Ma cosa significa esattamente “pastorale”? Significa un atteggiamento pratico supportato da una base dottrinale, la quale, però, non lo rende “dogmatico” o definitorio in senso stretto.
Lo scopo principale del Vaticano II fu “pastorale” o pratico, anche se, per agire e volere, occorre prima essere e conoscere (“agere sequitur esse” e “nihil volitum nisi praecognitum”), analogicamente alla scienza pratica che è un “conoscere per agire rettamente” e distintamente dalla scienza speculativa che è un “conoscere per sapere”.
Il Vaticano II voleva far conoscere il cristianesimo all’uomo contemporaneo, utilizzando un procedimento a lui più familiare, ossia pratico, “pastorale”, vale a dire «tradurre la dottrina in termini operativi» (p. 64) e perciò non volle essere speculativo o “dogmatico” (cfr. p. 63). È illecito ciò? No. Infatti «un Concilio non parla alle nuvole […]. Gli interessano gli uomini, questi uomini, il loro consorzio, la loro quotidianità, la loro salvezza eterna. […]. In pari tempo, però, era doveroso evitare l’ errore di incapsularsi nell’indagine sociologica […]. Anche se non si discute l’opportunità di un tale approccio conoscitivo [parlare pastoralmente di Cristo all’uomo contemporaneo], discutibile e sconsigliabile avrebbe dovuto apparire l’ affidarsi a criteri valutativi che […] sapevano d’immanentismo, d’ idealismo, di positivismo, d’ esistenzialismo e perfino di materialismo» (p. 69). Infatti, «nessuno potrebbe sostenere che qualunque riformulazione [del dogma] è già di per sé un errore. L’aveva già proposta […] Vincenzo di Lerino, aggiungendo però “eodem sensu eademque sententia”, con il medesimo contenuto e la stessa confessione» (p. 89); tuttavia «che il postconcilio sia andato per la sua strada a ruota libera, appellandosi formalmente al Concilio ma, di fatto, rompendo gli argini entro i quali il Concilio stesso aveva almeno tentato d’inglobare il suo corso, sembra difficilmente contestabile» (p. 89).
Nel Vaticano II, dunque, «non [vi è] l’assenza del profilo dottrinale, ma [vi è] l’assenza dell’intento definitorio e, di conseguenza, di nuove formulazioni dogmatiche. […]. All’ atto pratico, però, il sopravvento è sempre della pastorale. […] Su una sola conclusione non si sbaglia: si volle un Concilio pastorale. E solamente pastorale» (pp. 64-65; i corsivi sono nel testo). Il Gherardini asserisce: «Dico subito che neanche una sola definizione dogmatica rientrò negli intenti della Lumen Gentium o degli altri documenti del Vaticano II. Il quale – è bene non dimenticarlo – non avrebbe nemmeno potuto proporla, avendo rifiutato di mettersi sulla stessa linea tracciata dagli altri Concili» (pp. 49-50).
All’obiezione che le Costituzioni Lumen Gentium e Dei Verbum del Vaticano II sono qualificate come “dogmatiche” l’Autore risponde che esse «non ricorrono ai consueti canoni di condanna, rinunciando così a qualificare dogmaticamente le rispettive dottrine. Perché si parla allora di “Costituzioni dogmatiche”? Evidentemente perché esse recepirono dogmi precedentemente definiti» (p. 50). Inoltre Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962 disse esplicitamente che il Concilio «era stato indetto non per condannare errori e formulare nuovi dogmi, ma per manifestare la verità di Cristo al mondo contemporaneo. […] È pertanto lecito riconoscere al Vaticano II un’ indole dogmatica solamente là dove esso ripropone come verità di Fede dogmi definiti in precedenti Concili. Le dottrine, invece, che gli sono proprie non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive della ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa “voluntas definiendi”» (p. 51).
 
Concilio e post-concilio
All’indebolimento o addirittura al superamento delle posizioni dottrinali, disciplinari, liturgiche e pastorali della Chiesa preconciliare «il Vaticano II non prestò mai il suo aiuto diretto. Ci pensò il postconcilio» (p. 74). Tuttavia il Concilio dette un “aiuto indiretto” (ivi) a tale ribaltamento e “gli interessati all’opera d’ indebolimento e superamento prima accennata fecero di codesto aiuto indiretto un “canone ermeneutico” (ivi), chiamato “spirito del Concilio” (ivi). Ora, osserva il Gherardini, se “formalmente parlando”, lo spirito conciliare non poteva assurgere a criterio interpretativo del Vaticano II, “le premesse materiali c’erano” (p. 75). I princìpi dello spirito del Concilio, «anche se formalmente staccati dal dettato conciliare […], provenivano dai suoi più o meno occulti patrocinatori, erano da questi innestati sul ceppo conciliare ed introdotti a pieno titolo tra gli strumenti interpretativi di esso» (pp. 75-76; corsivi nostri). Onde «chi non ne traesse le dovute conseguenze innovative sino alla creazione di una religione nuova […], dimostrerebbe di non sapersi muovere a dovere nell’oscuro e fitto dedalo delle antinomie conciliari e soprattutto postconciliari. In atto fu – e tuttora va per la sua strada – un’ermeneutica di rottura» (p. 76).
L’Autore dà a tale interpretazione del Vaticano II la qualifica di “vero modernismo” (p. 77). Onde egli chiede al Papa di sostituire all’ ermeneutica della rottura o della continuità asserita ma tuttora non dimostrata, un’ermeneutica teologica, «che determini il significato, il valore, l’originalità, la vitalità e le finalità del Vaticano II alla luce dei princìpi poco sopra indicati» (p. 84) che sono quelli «teologici» (p. 81), onde «valutare alla luce [di essi], il significato […], la portata ecclesiale dell’ultimo Concilio» (ivi). Un’ ermeneutica veramente teologica deve rispondere alla domanda decisiva: «il Vaticano II s’iscrive o no nella Tradizione ininterrotta della Chiesa, dai suoi inizi sino ad oggi?» (p. 84).
 
L’«ermeneutica della continuità e non della rottura»
Per quanto riguarda la “ermeneutica della continuità e non della rottura come sola ermeneutica da adottare” per il Vaticano II (Benedetto XVI, 22 dic. 2005, Discorso alla Curia romana), il Gherardini scrive: «Non nascondo che l’affermazione, pur importante, non mi parve né originale né del tutto soddisfacente» (p. 87). Poiché il problema reale da affrontare, il “discorso da fare” è «quello di dimostrare che il Concilio non si mise fuori del solco della Tradizione» (p. 87). È a questo punto che egli aggiunge: «appena terminato il Vaticano II […] parlai e poi scrissi di “continuità evolutiva” […] per trovare mediante questa formula, la possibilità di agganciare il Vaticano II […] alla precedente tradizione. Confesso però che mai ho cessato di pormi il problema se effettivamente la Tradizione della Chiesa sia stata in tutto e per tutto salvaguardata dall’ultimo Concilio e se, quindi, l’ermeneutica della continuità evolutiva sia un suo innegabile pregio e si possa dargliene atto» (ivi). 
 
Il miglior consiglio è di fare bene quanto possiamo e poi non aspettarci la mercede dal mondo, ma da Dio solo.
S. Giovanni Bosco

Quanto ai grandi teologi “nuovi” e “nuovissimi” che parteciparono come “periti” al Concilio, il Nostro ammette che se Rahner, Schillebeeckx, Küng, Boff colpirono la Tradizione «con fendenti diretti» (p. 90), altri «celebrati pezzi da novanta, come von Balthasar, De Lubac, Daniélou, Chenu e Congar» (ivi), colpivano lo stesso bersaglio con fendenti «indiretti» (ivi). Effettivamente «qualche cosa di nuovo, dal 1965 in poi [il postconcilio], ma non senza radici nel periodo 1962-1965 [il Concilio stesso], era nato: qualcosa che sistematicamente rompeva i ponti con la linfa vitale della Tradizione […]. Fu l’humus del Vaticano II a far cestire il “nuovo” e fu il suo “placet” a presentarlo come una parola d’ordine» (p. 99; corsivo nostro). Non è solo questione di postconcilio, dunque, ma del Concilio stesso, del suo terreno, del suo ambiente, del suo assenso alla rottura sistematica con la Tradizione.
Il Gherardini vuole essere chiaro e ribadisce: «anche se fosse dimostrabile l’assenza d’una sua [del Concilio] diretta responsabilità, è comunque certo che una sua responsabilità indiretta ci fu e che, in conseguenza di essa, il dibattito teologico del postconcilio, si lasciò la tradizione dietro le spalle e la sottopose ad interpretazioni di comodo» (p. 103).
Nel corso del libro (pp. 103-242) l’Autore affronta le questioni della divina Tradizione, della Collegialità, della Libertà religiosa, dell’ Ecumenismo e della Riforma liturgica, per mostrare le contraddizioni almeno materiali con la dottrina cattolica comunemente insegnata sino al 1965. Mostra che Dignitatis humanae (Dichiarazione sulla Libertà religiosa) e Nostra aetate (Dichiarazione sul dialogo con le religioni a-cristiane e specialmente con il giudaismo) sono state concepite assieme, soprattutto ad opera di mons. E. De Smedt, il 19 nov. 1963 e che perciò un vincolo “stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa” come se la Parola Divina “non avesse stabilito la dipendenza della libertà dalla verità” (p. 189).
  
Epilogo e supplica al Santo Padre
Il problema di fondo, che il Papa solo può risolvere e può risolvere anche da solo, è quello di dimostrare se vi sia continuità o discontinuità tra Vaticano II e i venti Concili ecumenici che lo precedettero ovvero se il postconcilio ha concorso o no ad allontanare il Vaticano II dalla Tradizione (p. 243). Occorre provare – e non basta limitarsi ad asserirlo – che vi è continuità omogeneamente evolutiva (“eodem sensu eademque sententia”), tra Vaticano II e gli altri venti Concili (p. 244). Mons. Gherardini scrive: «È sotto gli occhi di tutti […] il radicale cambiamento di mentalità che, iniziatosi col modernismo nei primi anni del secolo scorso, trionfò nelle anticamere del Vaticano II, nell’aula conciliare e soprattutto nel disastroso decorso del postconcilio. Chi lo negasse […], dimostrerebbe di vivere tra le nuvole» (p. 246). Segue la Supplica al Santo Padre in cui l’Autore domanda «chiarezza, rispondendo autorevolmente alla domanda sulla continuità di esso [Concilio] – non declamata, bensì dimostrata – con gli altri Concili […]. Una scientifica analisi dei singoli documenti, del loro insieme e d’ogni loro argomento, delle loro fonti immediate e remote […]. Sarà necessario dimostrare – al di là d’ogni declamatoria asseverazione – che la continuità è reale, e tale si manifesta, solo nell’identità dogmatica di fondo. Qualora questa, o in tutto o in parte, non risultasse scientificamente provata, sarebbe necessario dirlo con serenità e franchezza in risposta all’esigenza di chiarezza sentita ed attesa da quasi mezzo secolo […]. Si potrà in tal modo sapere se, in che senso e fino a che punto il Vaticano II, e soprattutto il postconcilio, possano interpretarsi nella linea di un’ indiscutibile continuità sia pur [omogeneamente] evolutiva, o se invece le sian estranei se non anche d’ ostacolo» (p. 257; neretti nel testo).
 
* * *
 Il libro è accompagnato da due lettere introduttive e di sostegno. La prima è del Vescovo di Albenga, mons. Mario Oliveri, che si unisce “toto corde” (p. 8) alla supplica del Gherardini ed esprime la sua ferma convinzione che «se da un’ ermeneutica teologica cattolica emergesse che taluni passi […], non dicono soltanto “nove” [nuovamente, quanto al modo], ma anche “nova” [cose nuove, quanto alla sostanza], rispetto alla perenne Tradizione della Chiesa, non si sarebbe più di fronte ad uno sviluppo omogeneo del Magistero: lì si avrebbe un insegnamento non irreformabile, certamente non infallibile» (p. 7). L’altra lettera è dell’Arcivescovo, Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, mons. Albert Malcom Ranjith. Onde possiamo dire che due membri della Chiesa docente, assieme al teologo Brunero Gherardini, chiedono al Papa di dirimere “autoritativamente” la questione che il Concilio pone da quaranta anni alla coscienza dei cattolici.
● Il libro può essere richiesto a: Casa Mariana Editrice. Via Piano della Croce. 83040-Frigento (AV). Tel./fax: 0825. 444. 415. Mail:  cm.editrice@immacolata.ws


Censor
da SiSiNoNo, giugno 2009
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ª  Tra i rari studi seri sulla asserita continuità tra Concilio e Tradizione l’Autore cita agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, (Libreria Editrice Vaticana, 2005), che avversa la “interpretazione della rottura” della scuola di Alberigo e Melloni. Tra i libri, che, invece, denunziano la non continuità sono citati Cornelio Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner e L’avventura della teologia progressista (Milano, Rusconi, 1974); Giuseppe Siri, Getsemani (Roma, Comunità della Santissima Vergine Maria, 1980); Romano Amerio, Iota unum, [1985] (rist. Verona, Fede e Cultura, 2009); Johannes Dormann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, [1994-98] (tr. it., Albano Laziale, Icthys, 4 voll., 1999-2003). 
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