quinta-feira, 2 de maio de 2019

Il mistico che rischiò di diventare giornalista

La vita di don Divo Barsotti in dieci anni di interviste



Il 14 febbraio alle 18, presso il Seminario vescovile di San Miniato, verrà presentato il libro Don Divo Barsotti, il cercatore di Dio. Dieci anni di interviste (Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2008, pagine 114, ). (L'evento è già avvenuto. Questo articolo viene riproposto per far conoscere la spiritualità di Don Divo Barsotti).
Pubblichiamo stralci dell’introduzione dell’autore e un frammento di uno dei colloqui.

di Andrea Fagioli

“Mi sembra che Dio rimanga sempre Dio ovvero trascendenza infinita, sia in un mondo caotico come il nostro, sia in un mondo anche più ordinato. L’uomo si trova sempre nell’impossibilità di stabilire con Dio un rapporto vero, ma vivrà sempre per l’Assoluto e l’Assoluto soltanto potrà dare una risposta ai suoi problemi più profondi.
Credo anzi che oggi si faccia ancora più presente questo bisogno di qualcosa di fermo, di immutabile. È il momento che la vocazione contemplativa si imponga di più nella Chiesa per la salvezza del mondo”.

Don Divo Barsotti era nato il 25 aprile 1914 a Palaia, in provincia di Pisa, diocesi di San Miniato. Settimo di nove figli (di cui un altro prete), era entrato in seminario a undici anni e ordinato sacerdote il 18 luglio 1937.
Dopo avere insegnato teologia nel proprio seminario, nel 1946 gettò le basi di quella che sarebbe diventata la Comunità dei figli di Dio, un’associazione (non un ordine) con carattere contemplativo.
Figli di Dio sono certamente tutti i cristiani, ma con questo nome la Comunità intende vivere in modo più diretto e profondo la filiazione divina, con una consacrazione che impegna a riscoprire il battesimo in modo consapevole e responsabile. Il significato di questo nome sta dunque nell'impegno a vivere il mistero dell’adozione filiale nella carità, che è l’essenza del cristianesimo, a obbedire non più alla natura umana, ma soltanto all'azione di Dio che vive in ognuno. E poiché il processo della santificazione implica sempre più un’identificazione, un’unione sempre più intima con Cristo, vivere da “figli di Dio”impone l’ascolto della Parola per accogliere il Verbo, così che il Verbo faccia di ognuno il suo corpo: si è figli di Dio quando si è profeti che incarnano il Vangelo, testimoni di Cristo, che si incarna e vive nell'uomo e attraverso l’uomo si rivela al mondo.
Don Barsotti, già da tempo, aveva lasciato la responsabilità di superiore generale della Comunità per cui “il padre”, a Casa San Sergio, era solo un “fratello”.
“Oggi il bene cresce - diceva il fondatore dei Figli di Dio - ma cresce nell'umiltà, nel silenzio. Tanto più il bene è grande, tanto più assomiglia a Dio che è invisibile”, a quel Dio che don Divo ha sempre cercato, sin da piccolo quando, nel 1923, voleva andarsene con un padre passionista arrivato a Palaia per predicare le missioni. “Finisci almeno le elementari”, gli dissero i genitori.
Rinunciò all’idea di farsi passionista, ma non al seminario “dove, fin dai primi anni - raccontava - sentii l’appello delle missioni. Volevo andare in missione, ma per vivere una vita contemplativa”.
Rischiò invece di diventare giornalista. “È vero, nel 1944 - confermava don Divo - dovevo entrare a “L’Osservatore Romano”, ma la cosa non si concretizzò. Fu La Pira a convincermi di presentarmi a Roma alla sede del giornale”.
A quella collaborazione teneva talmente che nel suo diario privato annotò: “Ho l’impressione che tutto si apra per me: “L’Osservatore Romano” per la terza volta ospita un mio articolo in prima pagina”.
Ma se avesse fatto il giornalista, come avrebbe potuto conciliare questo lavoro con la spiritualità contemplativa? “È molto meglio così - ammetteva - non solo per la vita contemplativa, ma anche per la mia funzione nella Chiesa. Con tutto il rispetto, credo che una produzione come la mia resista di più degli articoli di giornale. Comunque, è Dio che conduce le cose e Lui sa far bene tutto: siamo noi che imbrogliamo le carte”.

In Vaticano sarebbe poi tornato molti anni dopo per predicare gli esercizi spirituali. Fu Paolo VI a chiamarlo. Da quell'esperienza nacque uno dei libri più interessanti di don Barsotti: Per l’acqua e per il fuoco (Editrice Santi Quaranta, 1994), un diario nel quale, alla data 15 novembre 1970, senza nessun commento annota una telefonata di monsignor Benelli: “Il Papa vuole che gli predichi gli esercizi spirituali in Vaticano, nella prima settimana di Quaresima”.
La richiesta sembrò lasciarlo indifferente, ma un mese dopo, il 17 dicembre, scriveva: “Mi domando che cosa voglia dire per me, che cosa vorrà dire per la mia vita continuare questo cammino, predicare al Papa. Non lo so”.
All'inizio del 1971 i primi segni di trepidazione: “Non avrei mai pensato che Dio mi avrebbe chiesto di parlare al Papa. E non può essere una cosa da nulla, una cosa inutile, scontata”.
A febbraio, l’illuminazione: “La prima meditazione che farò al Papa sarà questa: la terribilità della fede. Se il cristiano non trascende ogni realizzazione umana, è evidente che il cristianesimo è soltanto menzogna. Il messaggio cristiano esige, per colui che l’accoglie, la rinunzia a tutti i valori del tempo”. Il 28 febbraio “la prova è superata, male o bene, è superata”.
Dopo qualche giorno affiora anche il disagio: “Se la Chiesa non fosse mistero, sarebbe deludente!”. Il diario continua.
Don Barsotti “procede tra la notte oscura della solitudine” e “la Realtà del Cristo” con giudizi sferzanti e uno scritto “limpido e tempestoso come l’acqua, veemente come il fuoco che consuma la creatura nell'amore di Cristo”.

Anche con Giovanni Paolo II ebbe qualcosa da ridire a proposito dell’incontro interreligioso di Assisi. Glielo scrisse: “Il dialogo nel quale è ora impegnata la Chiesa mi sembra sia molto efficace e importante, ma volere estendere il tavolo del dialogo a tutti a me fa paura”. La paura era quella del sincretismo, non certo del dialogo e meno ancora di quell'ecumenismo a cui, primo in Italia a occuparsi degli ortodossi russi, ha dedicato tanta parte delle sue riflessioni.

Ma don Barsotti era così: un uomo di Dio, duro e puro, senza sconti. Il suo ultimo messaggio lo aveva affidato al suo “figlio” prediletto, il suo successore e al tempo stesso il suo superiore, Serafino, a cui il “padre”, come detto, aveva da tempo lasciato la guida della Comunità. “Siediti e scrivi”, gli disse un giorno poco prima che la malattia lo costringesse a letto quasi immobile.
“Abbiate fiducia”, furono le prime parole rivolte ai suoi “figli”: “Abbiate fiducia. Dio non mancherà. Non vi preoccupate per il numero; importante è che stiate uniti. Ricordatevi che la vita religiosa è un impegno di fede in Dio che è presente, ed è l’Amore infinito (…) Siate certi e sicuri della vostra vocazione e sappiate difenderla. A tutti voglio rivolgere l’ultimo mio saluto, il mio ringraziamento più fervido, più vivo, la mia assicurazione che non abbandonerò nessuno. Raccomando di essere uniti; non dubitate, non disperdetevi, non scoraggiatevi (…) Io vi lascio apparentemente. Realmente, sono con voi più di prima (…) Nella mia unione con Cristo, ci sarà quella con tutti i miei figli. So di avere mancato tanto verso di loro, ma so ugualmente che tutto mi è stato perdonato. Non ho ricevuto che amore. Soltanto Dio potrebbe ricompensare ciascuno di tutto quello che mi ha dato”.

Nella poesia uno strumento per riscoprire il sacro

Don Barsotti, cos'ha rappresentato, per lei, la poesia?
La poesia dice la gratuità della vita, dice che tutto è miracolo, tutto veramente è qualcosa che tu non puoi dominare. Tu sei dominato: dominato dalle cose, dalla bellezza, dai fatti. Se vivi questa tua dipendenza nell'angoscia, anche questa può essere trasferita nella poesia, ma è soprattutto nella meraviglia, nello stupore che senti che il mondo è più grande di te.

Quanto è importante la poesia?
Molto. È importante per l’umanità di oggi riscoprire il sacro attraverso la poesia, magari la poesia di chi è anche anticristiano, ma sente la bellezza dell’amore, di chi magari rifiuta il Cristo, non perché ci sia da parte sua un rifiuto cosciente, ma perché non lo conosce, perché gli è stato presentato male e sente invece pulsare la vita di questo universo.

Che rapporto c’è, a suo giudizio, tra letteratura e religione?
È una cosa notevole riconoscere come la religione sia sempre legata a un fenomeno letterario. (…) Sempre, per ogni popolo, per ogni civiltà, non si ha religione, si direbbe, che non si esprima attraverso l’arte e non abbia nell'arte, in particolare nella letteraria, la sua testimonianza più alta.

E i poeti cristiani?
Anche i poeti cristiani, quando passano da un’espressione religiosa vaga a un’espressione concreta, cadono facilmente (non dico inevitabilmente) nel didascalico, nell'oratorio.

Per essere poeti cristiani bisogna dunque essere dei santi?
Certo che i poeti più grandi del cristianesimo sono santi. Tuttavia non sono soltanto i santi, i poeti cristiani, sono anche i peccatori che implorano il perdono.

(©L’Osservatore Romano – 14 febbraio 2009)