L’impazienza è il veleno che a piccole o grandi dosi l’uomo moderno, compreso il cristiano, si inietta continuamente nelle vene ed ecco che l’ «uomo, proprio in forza della speranza che lo anima e lo spinge, non sa più abbandonarsi a Dio e attendere “i suoi momenti”, vuole anticiparli da sé e, proprio nel suo sforzo di realizzare quaggiù il Regno di Dio, va avanti da solo e Dio lo abbandona» (1). Questa grande verità venne analizzata da un maestro della spiritualità del XX secolo, don Divo Barsotti, in un suo articolo pubblicato su «L’Osservatore Romano» del 16 marzo 1969 e ripreso in un interessante libro che raccoglie suoi articoli ed interventi dal titolo “I cristiani vogliono essere cristiani” (San Paolo 2006, pp. 347, € 17,00).
Ma l’uomo, senza Dio, dove può mai arrivare? L’infelicità sarà il suo certificato di garanzia. Non c’è niente di più tragico, per l’uomo, che rimanere solo, senza il Padre che lo volle e lo creò. Pensiamo alla drammaticità di rimanere orfani nella tenera età oppure al terrore scritto sul volto di tanti anziani malati lasciati soli negli ospizi; pensiamo, soprattutto, a chi rimane orfano del Signore, all’inquietudine di società intere, un tempo cristiane, che hanno perso la Fede e la speranza in Dio: là dove la persona non fa più affidamento al suo Creatore ha già la morte nell’anima. Ci sono stati e ci sono eremiti che, benché vivano nella solitudine più assoluta, pregustano già la felicità eterna, perché vivono in Dio e non si affannano mai, non conoscono l’impazienza, ma solo la pazienza, vivendo nella traiettoria dell’Assoluto e dell’Amore Infinito, immersi nella Sua grazia, che nutre e disseta.
«Quando il tempo presente, quando l’esperienza di quaggiù cessa di essere segno del Mistero, allora il tempo perde la sua stessa significazione e l’esperienza umana diviene vuota di senso» (2). Questa misteriosa, splendida, fuggitiva e terribile scena temporale, dove bene e male sono in perenne conflitto dentro e fuori di noi, ha un grande e sibillino protagonista: il Tentatore che minaccia tutti gli uomini, anche quelli di Chiesa. Senza il Mistero della Fede, afferma don Barsotti, la vita perde di significato e allora: «Mi domando se non è questa la tentazione di tanti oggi nella Chiesa. Una certa volontà che si disfaccia la Istituzione ecclesiastica, cioè la Chiesa, nella “città secolare”» (3). Barsotti, monaco di grande Fede, ma anche di grande onestà intellettuale, si interrogò assiduamente sulla deriva di buona parte del mondo cattolico e ne cercò le cause. Quella «città secolare» dentro alla «Città di Dio» proprio non poteva accoglierla con passività e rassegnazione. «La Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” forse ne è stata l’occasione? Ogni grazia è ambigua: anche una Costituzione Conciliare, in una sua interpretazione aberrante, potrebbe rappresentare una grave tentazione» (4). Ma si tratta semplicemente di interpretazione o forse non ci sono già segni pericolosi dentro l’oggetto di quella che potrebbe diventare «interpretazione aberrante»? Don Barsotti afferma che la Chiesa non deve avere paura della Croce, perché in essa sta il segno della Fede e ad essa bisogna obbedire. «Si può dire: il Cristo ha già realizzato la salvezza, il Regno di Dio; sì, ma tu ne sei escluso, se l’obbedienza della fede che in Lui compì il disegno divino della salvezza, non diviene la sua stessa obbedienza. Per questo l’obbedienza della fede è la suprema attività dell’uomo. […]. Nulla perciò è più efficace, in ordine alla speranza della piena rivelazione del Regno di Dio, che la fede, anzi, nulla è veramente efficace tranne l’obbedienza della fede. Ogni attività che prescinda dalla fede, è attività demoniaca che vorrebbe violentare le segrete disposizioni di Dio, vorrebbe strappare a Dio la decisione dell’intervento ultimo, sostituendo all’economia sacramentale presente, l’economia della gloria», e il fondatore dei Figli di Dio, a questo punto, non usa mezzi termini: «Parlare di un post-cristianesimo è, nel migliore dei casi, delirio soltanto di chi ha perduto la fede e rinunzia definitivamente alla salvezza di Dio» (5).
Don Divo Barsotti è profondamente allarmato dalla secolarizzazione della cristianità, ma non se ne sta con le mani in mano, reagisce con prediche, discorsi, articoli, libri... Nessun processo di secolarizzazione, afferma, avrà la capacità di risolvere in elemento secolare le virtù teologali: non la fede, non la speranza e nemmeno la carità, perché l’assistenza sociale non sostituisce e non sostituirà mai l’amore cristiano. Infatti il termine solidarietà ha rimpiazzato, anche in ampi strati della Chiesa, il cattolico vocabolo carità.
Magnifico e verissimo ciò che sostiene: il Sacerdote mantiene la sua essenziale e formidabile mansione anche se gli fosse impedita ogni attività sociale. Questo vale pure per la Chiesa, anche se essa perdesse ogni grandezza di carattere storico. Gli uomini potrebbero comunque riconoscere al Sacerdote e alla Chiesa la loro vera missione che è l’annuncio della Salvezza, la celebrazione del Santo Sacrificio, la discesa della grazia attraverso i Sacramenti, l’unione con Dio nella preghiera. La Santa Messa è il cuore della Fede. Ma come porsi allora di fronte alle tante celebrazioni eucaristiche postconciliari dove al centro dell’attenzione non c’è più l’immolazione del Figlio di Dio, ma l’assemblea? «Se la celebrazione liturgica non realizzasse la unità trascendente degli uomini in Cristo, che cosa sarebbe di più che una riunione di amici, cui disturba ogni forma come inutile e falsa? Meglio cento volte un rito incomprensibile, che una celebrazione che si risolva in un puro incontro di amici – non certo perché l’incomprensibilità del rito illude più facilmente sul suo valore, ma perché meglio significa il suo contenuto reale di Mistero che trascende tutto l’umano» (6).
Benché la secolarizzazione abbia profanato realtà che non le appartenevano, come per esempio la Sacra Liturgia, la «Presenza rimane e giudica il mondo». Qui don Barsotti si fa severo. Togliendo stoltamente la Croce per porvi un Gesù umanizzato che tutto perdona e tutti accoglie, si toglie il Mistero, ma ciò non può che portare alla rovina: l’uomo, così facendo, dovrà rinunciare al senso della vita, della storia, della creazione: gli rimarrà, alla fine, la dimensione animale, senza però averne l’innocenza, «animale che vive senza perché e muore senza rimpianto» (7).
Severo è anche quando rimprovera, senza fare il nome dell’autore, il titolo di un libro uscito intorno al 1969, Credenti e non credenti per un mondo nuovo. Barsotti qui insiste sul fatto che non può esistere alcuna «novità» per il credente all’infuori di Cristo, perciò è logico che fra chi ha Fede e chi non l’ha, seppur possano vivere insieme e lavorare insieme, esiste un abisso: mentre per il secondo la sua condizione non trova risposte serie e non sa dove sia diretto, la meta per il primo è chiara e può credere meno in se stesso e nelle proprie attività, proprio perché si affida a Chi di lui si prende cura come i gigli dei campi e i passeri del Cielo.
Interessante poi ciò che il fondatore dei Figli di Dio dichiara allorquando prende in esame la locuzione «Popolo di Dio», la quale, dal Concilio Vaticano II in poi, ha preso il posto di Gesù Crocifisso: «Fermandosi e insistendo sull’immagine di “Popolo di Dio”, la Costituzione dogmatica Lumen gentium già rivela l’intenzione fondamentale del Concilio di ispirare una teologia eminentemente pastorale» (8). Il Popolo non sostituisce, mai, il Figlio di Dio, così «come non lo sostituisce il “Cristo cosmico” che non ho mai capito che fosse», quello declamato dal geologo e paleoantropologo Teilhard de Chardin S.j. (1881 - 1955), che ebbe a definirsi in questi termini: «Io non sono né un filosofo, né un teologo, ma uno studioso del 'fenomeno', un 'fisico' nel senso dei greci » (9)… quale e quanta differenza dal dottissimo san Pier Damiani (1007-1072), teologo, latinista, vescovo e cardinale, che di sé diceva: «Petrus ultimus monachorum servus» («Pietro, ultimo servo dei monaci»).
Il 30 luglio 1969 su «L’Osservatore Romano» don Barsotti si fa interprete dell’ortodossia contro le idee distorte moderne che hanno seminato la gramigna ovunque, infestando anche i campi migliori. Il suo racconto è chiaro, preciso, illuminante: vi è rappresentato il pensiero, trasmesso purtroppo da buona parte dei pastori, che oggi il cristiano ha della Chiesa:
«Alcuni giorni fa, predicando un ritiro, un’ottima figliola si mostrò meravigliata che io non capissi come finalmente il Concilio ci avesse dato della Chiesa una concezione schiettamente democratica. La Chiesa, essa mi diceva, segue il cammino dei tempi. Alle monarchie assolute han fatto luogo le democrazie popolari. Così nella Chiesa. Non è Essa infatti il Popolo di Dio? Al sacerdozio ministeriale la Comunità delega semplicemente i propri doveri, e nulla vieta che possa riprenderli, quando il sacerdote ne abusa. Non vi è altro sacerdozio, come non vi è altra regalità che quella del Popolo». Alla giovane il monaco rispose con la Fede di sempre, quella trasmessa di generazione in generazione, dal Salvatore in poi. Disse che è Cristo il pastore del gregge, Egli la roccia sulla quale è edificata la Chiesa come Tempio santo di Dio ed è Pietro che il Figlio di Dio scelse per pascere, in suo nome, le pecore del gregge: non è il gregge che sceglie il suo pastore.
Gli spunti di riflessione che don Barsotti ci propone sono molteplici: la sua teologia scava nei meandri della mentalità moderna e per non perdersi nei suoi labirinti, come invece hanno fatto molti altri colleghi del suo tempo, si è ancorato alle verità della Tradizione della Chiesa.
Chiudiamo con alcune osservazioni decisamente impregnate di attualità, considerando lo stato attuale di questa Europa malata e depressa, che non ha più nessun esempio da dare se non in negativo. «Non è certo facile vivere oggi. Respiriamo un’atmosfera di crisi – religiosa, politica, filosofica, morale – che vorrebbe toglierci ogni volontà di lavorare, ogni gioia di vivere. […]. Saper vivere, saper morire: chi ci insegna più questa sapienza? […]. Non c’è nulla da salvare quando ognuno vuol salvare soltanto se stesso e il proprio egoismo» (10). L’amarezza pervade questo mistico che vorrebbe gridare a tutti quanto è benefico stare con Dio. Immensa pena prova per coloro che corrono alla «fiera delle vanità» (11), coloro che credono e vorrebbero far credere ad una loro testimonianza. Ma testimonianza a chi e di che cosa? Si è disposti a mettere se stessi al servizio di coloro che hanno più o meno potere; ma si tratta di un servizio impuro perché nell’intimo il “servitore” non ama il “servito”, ovvero il padrone che si è scelto. «Si è servi in vista soltanto di diventare padroni» (12) e questo non vale soltanto per gli uomini del potere civile, ma anche di coloro che detengono quello religioso. Gli uomini veri, aggiunge ancora Barsotti, non sono mai stati molti, ma non conforta il constatare che ogni giorno sono sempre meno. E chi sono questi uomini veri a cui fa riferimento? Coloro che non cercano un facile consenso esteriore, ma sono paghi della testimonianza della propria coscienza e non antepongono nulla alla fedeltà di seguirne le norme con semplicità e fermezza. Ma una cultura «che non fa posto alcuno all’interiorità, non può educare gli uomini ad essere uomini» (13).
Cristina Siccardi
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NOTE (1) D. Barsotti, “I cristiani vogliono essere cristiani”. Interventi del Padre dagli anni ’50 ai nostri giorni, a cura di Paolo Canal, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, p. 28. (2) Ibidem. (3) Ibidem. (4) Ibidem. (5) Ivi, pp. 30-31. (6) Ivi, pp. 45-46. (7) Ivi, p. 46. (8) Ivi, p. 51. (9) Intervista a Teilhard de Chardin, «Nouvelles Littéraires», 11 gennaio 1951. (10) D. Barsotti, op. cit., pp. 114-115. (11) Ivi, p. 115. (12) Ibidem. (13) Ibidem.